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lunedì 26 aprile 2010

Cronaca su Green Hill. Manifestazione del 24 Aprle.

Apparso su AgoraVox del 26 Aprile 2010

Il 24 Aprlile a Montichiari, in provincia di Brescia, circa un migliaio di persone si è riunito per manifestare a favore della liberazione. Il 24 già, non il 25. Perché la libertà è un diritto che non tocca solo agli uomini ma a tutte le forme di vita. Green Hill è un centro da poco ampliato specializzato in vivisezione.
Cani e altri animali sono ogni giorno massacrati e torturati attraverso la giustificazione scientifica: "o loro o noi". Non è così, tutto ciò è morte... niente di più, niente di meno. La sperimentazione animale è uno degli argomenti più dibattuti tra i tanti riguardanti il rapporto tra gli esseri umani e gli animali e, sicuramente, quello su cui è più difficile schierarsi. Fino ad ora, gli antivivisezionisti sono divisi in due gruppi: quelli che ritengono l’impiego degli animali nella ricerca un metodo privo di valore scientifico e quelli che ritengono eticamente inaccettabile far soffrire, e spesso morire, gli animali, poiché sono esseri viventi e senzienti e quindi aventi il diritto alla vita e al benessere. In ogni caso, tutti e due puntano all’abolizione della vivisezione.
"L’appartenenza ad un gruppo non ha mai escluso l’adesione alle tesi dell’altro e quindi, spesso, gli antivivisezionisti si oppongono alla vivisezione sia per motivi etici sia scientifici" [citato da ’L’antivivisezionismo scientifico è controproducente?’ di S. Cagno in Liberazioni (7)]. Grenn Hill è uno di quei casi in cui le opposizioni alla sua esistenza si concentrano sue ambedue i motivi, quelli etici e quelli scientifici. Gli studi che verranno effettuati sui cani Beagle che sono stati "catturati" dal centro, sono, oltre che di rara crudeltà di dubbio valore scientifico. Stimolazione del dolore attraverso la contusione delle ossa, stimolazione di tumori, test di cosmetici e, questo, è solo quel poco che ci è dato sapere.
Le persone che si sono riunite pacificamente in presidio nazionale chiedono giustizia per chi, non potendo parlare, sarà costretto a vivere una vita di sofferenza. Il 22 di Maggio si terrà un’altra manifestazione in cui, ancora una volta, varie associazioni riunite sotto un’unica bandiera si recheranno direttamente nel luogo del massacro per chiedere la liberazione dei cani. Il 25 Aprile, quando vi troverete a manifestare, giustamente, per la Liberazione dal fascismo spendete due paroline anche per coloro che questa liberazione non l’hanno ottenuta e che, probabilmente, non la otterranno mai.

Leonardo Caffo

martedì 13 aprile 2010

Salviamo i cani di Green Hill

E' stato organizzato un pullmann da Milano che parte alle 12.00 da Piazza Leonardo da Vinci, angolo via Celoria, e torna a Milano alle 20.30 (stesso posto). Dieci europei a persona. Per prenotarsi si scrive a questo indirizzo.

lunedì 12 aprile 2010

«L’Ateo» n. 2/2010


Clicca qui per vedere i vari contributi, a pg 15 -16 c'è il mio articolo
Dai blog

Indipendentemente da tutto, io l'ho intervistata.

Da Mangialibri: http://www.mangialibri.com/node/6193
Leonardo Caffo

Margherita è la prova vivente che si possono fare mille cose contemporaneamente, e tutte bene. Giornalista, scrive di salute sul Corriere della Sera, è un'esperta di Bioetica e di tecnica della divulgazione scientifica, e last but not least saggista di successo. L'ho incontrata alla libreria Mondadori di Piazza Duomo a Milano, dove presentava il suo ultimo libro sul tema delle malattie rare.
Hai scritto un libro che si intitola Mucca Pazza concentrandoti sulle conseguenze per la salute dei consumatori. Pensi che ridurre o addirittura eliminare il consumo della carne possa risolvere problemi come questo o come la più recente aviaria?
No, anzi. Il complesso sistema creato dalla Mucca Pazza ha solo contribuito al business della carne e lo stesso vale per l'aviaria. Il problema centrale sta nella cattiva informazione e non nell'oggetto di consumo. Sul consumo della carne in generale esistono grandi personaggi, come Veronesi, che si schierano contro ma non credo abbia nulla a che fare con questioni come Mucca Pazza e Aviaria.

Come esperta di Bioetica cose ne pensi della questione animale? La Bioetica è solo “antropoetica” o può accogliere nella sua estensione qualsiasi forma vivente?
Assolutamente. Oggi più che mai la Bioetica è aperta a qualsiasi forma vivete siano questi cavalli, cani, delfini etc... La riflessione sulla vita coinvolge un target molto più ampio del solo genere umano.

Oltre a scrivere di Bioetica, salute e medicina sul corriere, ti occupi di tecnica della comunicazione scientifica. Credi che l’Italia sia davvero rallentata nel progresso scientifico dalle ingerenze del Vaticano? Oppure credi che questa domanda nasca solo da una propaganda antiecclesiastica?
Mi sembra ovvio vedere nel Vaticano un ostacolo al progresso scientifico. Credo che la stessa collocazione geografica della santa sede in Italia abbia bloccato l'evolversi della tecnica in generale e della medicina in particolare. Basti pensare alle occasioni perse con le cellule staminale o la ricerca embrionale.

Il 28 Gennaio 2005 scrivi sul corriere un articolo che s’intitolava cosi: “Il cattolico: non sono sicuro che ci sia un diritto alla vita. Il laico: la scelta è del padre” (peraltro reperibile sul sito italiano per la Filosofia). Qui discutevi quanto sia legittimo scegliere o meno per la vita di un altro anche in relazione alle malformazioni. Lucrezio, riprendendo Epicuro, diceva che la vita non sempre va conservata. Tu cosa ne pensi?
Sono ovviamente d'accordo con Lucrezio. Nonostante questo nessuno ha il diritto di togliersi la vita come e quando gli pare, familiari, amici e parenti ne soffrirebbero troppo. Il suicidio può risultare un atto egoista. Comunque d'accordo su un punto, la vita non sempre va conservata.

Perché interessarsi di Bioetica e perché, nello specifico, di malattie rare? Qual è il reale riferimento del “noi” nel tuo libro Noi, quelli delle malattie rare? Ti riferisci anche ai familiari dei malati?
Le malattie rare sono fondamentali per uno studioso di Bioetica. La storia di queste persone e commovente e spesso ignorata. Il libro è una rivendicazione rispetto al precedente Siamo solo noi. Ovviamente come hai capito, mi riferisco anche alle famiglie, che svolgono un ruolo fondamentale.

Che differenza c'è nello scrivere libri e nello scrivere articoli?
Nel mio caso nessuna! Sono una giornalista e rimango tale in qualsiasi contesto scrivo. Ho a cuore la divulgazione delle informazioni e svolgo sempre questo compito.

Un’ultima domanda. Tra i lettori di Mangialibri e in generale tra i lettori di libri una gran parte sono giovani. Pensi che l’Italia possa offrire qualcosa a questi giovani che vogliono lavorare nel campo della cultura e della diffusione della conoscenza? Ti va, a tal proposito, di fornirci anche una tua riflessione sull’università italiana?
Oggi voi giovani dovete sfruttare l'on-line abbandonando pian piano il cartaceo che invece ha caratterizzato la mia generazione, quella dei cinquantenni. Una testata giornalistica on-line è la nuova frontiera dell'informazione. Per quanto riguarda l'università: ragazzi, scegliete qualcosa di pratico e accantonate le vostre passioni, altrimenti scordatevi di lavorare. E' triste, ma questa è l'Italia.

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martedì 6 aprile 2010

Di un pensiero identico e indiscernibile

e.b : "credo sia una cosa meravigliosa..."

l.c: "che cosa?"


e.b: " starsene qui, in silenzio"


l.c: "ma tu parli..."


e.b: "tu dici? Mah... dipende"


l.c: "e da cosa?"


e.b: "vedi, amico mio, esistono molti modi di muovere la bocca ... La si può muovere per mangiare, per respirare... per urlare. Ma parlare, caro mio, è cosa da pochi e sai perchè?"


l.c: "...perché?"


e.b: "perché per parlare bisogna prima aver pensato. Quello..."


l.c: "lo so! E' cosa da pochi ma tu, mio fraterno amico, dici questo perché ti senti pensante... e se non lo fossi?"


e.b: " lo sono amico mio, io penso più di tutti"


l.c: "No amico mio, non più di tutti, perché dovresti pensare anche più di te stesso essendo anche tu nei tutti e, dunque, ci sarebbe sempre qualcuno che pensa più di te"


e.b: "non a caso, sono qui a parlare da solo, amico ..io..."

sabato 3 aprile 2010

L'intervista (falsa) scomparsa. La solita porcata di Belpietro


«Obama? Una grandissima delusione. Sono stato fra i primi a credere in lui, ad appoggiarlo, ma adesso devo confessare che mi è diventato perfino antipatico». Philip Roth, forse il più illustre dei narratori americani d’oggi, autore di capolavori quali Lamento di Portnoy, Pastorale americana, Zuckerman scatenato e, da poco uscito in Italia, Indignazione, esprime con forza, per la prima volta, il suo giudizio fortemente negativo sull’attuale Presidente Usa. Ci tiene a farlo subito, nella nostra conversazione telefonica.

Quando lo si ascolta parlare, con quella sua voce bassa e appena rauca, in cui le parole escono a ritmo ora velocissimo ora esitante, con quel tono malinconico, inquieto, ma capace d’improvvise, fulminanti, accensioni d’ironia, sembra davvero di essere dentro una delle pagine dei suoi romanzi. È come se quella, proprio quella fosse la voce di tanti personaggi di Philip Roth.

«Arrivato a settantasette anni - spiega - mi piace parlare della realtà che ho attorno, una realtà che mi fa arrabbiare ma che mi interessa ogni giorno di più». E premette che non dirà molto sulla letteratura: «La letteratura mi è indispensabile, è la mia vita, ma non so cosa dirne, ogni discorso sui libri mi sembra superficiale, stupido, e molto noioso».

Parliamo subito di Obama, allora. Perché tanta delusione?

«Perché non ha fatto nulla, in questo primo anno, nulla di rilevante, nulla di diverso da quello che la banale quotidianità del potere lo portava a fare. Si dirà: la riforma sanitaria. Ebbene, quella è un’ottima novità per l’America, ma non basta. Sembra una bandiera sventolata per mascherare il nulla, perché i risultati di questa presidenza per ora sono il nulla».

Lei è stato un acceso sostenitore dell’elezione di questo Presidente…

«Sì, perché nella sua campagna elettorale c’era davvero qualcosa di nuovo, di straordinario. Con quelle sue espressioni “hope” e “change”, ripetute con un’efficacia mai vista, a metà fra il moderno slogan pubblicitario e la cantilena d’uno sciamano, Obama era riuscito a svegliare l’America dal torpore della sua frustrazione, da quel grande senso di impotenza, di ansia, di sfiducia che nell’ultimo decennio ha dominato il Paese. Era stato capace di dare vitalità e slancio a chi lo ascoltava. Non nascondo di essere rimasto quasi incantato a seguire i suoi discorsi, io che non sono certo facile ad entusiasmarmi per le parole… Allora ho creduto, e con me tantissimi americani, che fosse arrivato davvero un tempo nuovo per la politica, un tempo dove creatività e intelligenza si unissero alla capacità di ascoltare la voce di un Paese e di sapervi rispondere».

E invece?

«Invece, niente. Appena eletto, fin dai primi giorni del suo lavoro alla Casa Bianca, Obama si è come fermato, addormentato. Lui, che aveva scosso l’America, si è assopito nei meccanismi del potere. Ha continuato a ripetere le sue frasi più belle della campagna elettorale, ma non ha aggiunto nulla di nuovo, e soprattutto, non ha fatto seguire le azioni. Forse ha cominciato a pesare la sua inesperienza, forse è restato prigioniero di una eccessiva valutazione che la gente aveva di lui. Di fatto, i suoi discorsi hanno preso a girare a vuoto, sempre uguali, accompagnati da gesti, sguardi e sorrisi ormai ripetuti ossessivamente, che prima lo hanno reso simpatico e ora lo rendono fastidioso, quasi antipatico. E i risultati si vedono».

Quali risultati?

«L’America è confusa, frustrata. Quel diffuso senso di paura dell’ignoto, di ansia, di impotenza che l’11 settembre ha contribuito in modo decisivo a scatenare, lacerando le certezze, devastando insieme alle torri di New York anche la percezione che il Paese aveva di sé e della propria forza, è rimasto. Anzi, la crisi economica, figlia in qualche modo di quell’insicurezza, di quella sfiducia che regnano nelle persone, ha addirittura peggiorato le cose».

Obama ha deluso anche in politica estera?

«Sì. Con Bush vigeva la logica dell’intervento militare, della lotta contro il terrorismo fatta con le invasioni militari. Una logica a mio avviso sbagliata, e che si è dimostrata perdente. Ma almeno, chiara. Quale è la strategia di Obama? Nessuno ancora lo sa. Parla di dialogo, e va benissimo. Ma di fatto Al Qaeda è sempre più forte e organizzata, un regime pericoloso e delirante come quello iraniano sta attrezzandosi con l’arma nucleare e si attrezza per colpire Israele, e lui, il presidente, sembra eludere il problema. Con l’Iran un giorno sembra voler aprire una trattativa (ma non si può aprire una trattativa con chi è, in tante cose, l’erede dei nazisti!), e il giorno dopo riafferma la necessità della fermezza. Cosa vuole fare in Afghanistan? Nuove truppe o disimpegno? Approva e sostiene il governo israeliano o sta dando ragione ai palestinesi? Impossibile rispondere. Ma un dato di fatto è certo, e Obama mostra di non tenerne conto».

Cioè?

«Cioè che, come l’11 settembre ha dimostrato, oggi il nemico vero, paragonabile al nazismo degli anni Trenta, è l’estremismo religioso e sanguinario, il terrorismo soprattutto di matrice islamica. A mio avviso, il dialogo non serve. E con chi si dialogherebbe, del resto? Ma nemmeno serve, come faceva l’amministrazione Bush, invadere Stati, intervenire militarmente. Serve, piuttosto, un sostegno effettivo a quelle forze che, all’interno dei Paesi dove il fondamentalismo è più forte o dove è addirittura regime al potere, si battono per contrastarlo. E, insieme, dare più forza, poteri e credibilità all’Onu, riformandolo completamente. Quello che è meno utile, è questa confusione, questa assenza di una linea chiara nella politica estera americana: questo fa contenti gli oltranzisti e i terroristi, indebolisce chi vi si oppone, e, a livello interno, fa sentire l’America sempre più sbandata, sempre più cupa».

Come vede l’Europa?

«Politicamente, mi sembra che l’Europa non ci sia, non decida nulla, non conti nulla. L’Europa è la sua cultura, la sua storia. E di questa cultura, di questa storia, dovrebbe essere più fiera, mantenendo una sua peculiarità, una sua autenticità, senza diventare, chissà poi perché, seguace di mode e modelli che vengono da fuori. A me, come americano, l’Europa piace e incanta se è sé stessa, non una mal riuscita imitazione dell’America».

Capisco la sua volontà di non parlare di letteratura. Ma non resisto. Posso chiederle chi sono, oggi, i suoi autori preferiti?

«Sto rileggendo Singer, e lo trovo sempre più grande. Splendido e tristissimo. Ma non mi chieda di più».

Chi riconosce come suo maestro?

«Ecco, mi aspettavo la domanda. Il problema è che, quando scrivo, la scrittura nasce da un’esigenza di raccontare, troppo forte per essere frenata anche se a volte mi capita di fermarmi, di non riuscire ad andare avanti, di sentire che tutto è finito, che l’angoscia che ho dentro non lascia più posto alle storie, che le storie possibili sono state tutte uccise, costrette a non esistere, a non nascere. Quando attraverso quei momenti, e negli anni sono diventati più frequenti, a volte basta la frase di un romanzo che mi torna alla mente, la battuta di un personaggio in un libro, per tirarmi fuori dal buio, per ridarmi la possibilità e la capacità di scrivere. Ecco: l’autore di quella frase, di quella battuta, è in quel momento il mio indispensabile maestro. Un momento può essere Cechov, un altro Saul Bellow, un altro ancora, appunto, Singer. Posso risponderle solo così».

E Bernard Malamud?

«Riconosco di dovergli molto. È un autore che talvolta, a leggerlo, lascia senza fiato. Cosa gli devo e perché, lo lascio dire ai critici. Loro scoprono cose straordinarie, di cui noi autori neppure ci accorgiamo…».

Lei è da anni candidato al Nobel. Ma il premio non è mai arrivato. Come giudica questa ripetuta esclusione?

«Non ritengo che il mio pessimismo, la mia indignazione, la mia rabbia siano da Nobel, gli accademici svedesi hanno altri gusti, altri parametri… Ognuno fa le scelte che vuole, e non sono certo io a giudicarle giuste o sbagliate. Se cambieranno idea, andrò a Stoccolma e sarò contento di ricevere il premio. Però mi creda: non ci penso mai, anzi, questo diluvio di ipotesi che ogni anno mi arriva addosso con i primi freddi dell’autunno mi disturba non poco, non sopporto questo gioco delle candidature. Diano il Nobel a chi vogliono e basta così».