I segni si rincorrono lungo la pista dello Zodiaco: già lo Scorpione abbranca il piatto della fuggitiva Bilancia. La città, vorace acquirente, alletta al suo mercato indefettibile commissionari e negozianti di porci, mediatori, macellari ed augusti bovari. È la più popolosa del nord, una delle più ricche, attivissima. Chi non mangia, non lavora. Qualcosa, in pentola, deve bollire ad ogni costo: perché il martello abbia a cader pieno sul ferro o adempiersi a un cenno lo smistamento dei veicoli indemoniati, senza urti, senza risucchi.
La città si sveglia. Contro il sole già alto le case si levano bianche, ognuna per suo conto, (1) quasi ammodernate torri, dal verde vivido della pianura, che appare sottilmente ovattata dalle prime sue nebbie: i treni rallentano la lunga corsa sopra i canali e le rogge, lungo gli stendimenti di infaticabili lavandai.
Le linee elettriche ad altissima tensione sorpassano i pioppi, accostano l’agglomerato delle case e delle fabbriche fino alle sottostazioni periferiche: ivi si disarmano, (2) come l’armato potere dei consoli davanti la silente legge e le porte dell’Urbe. Gli apparecchi di Taliedo già ronzano, con le ali ombrate o dorate, sopra la testa degli spazzini insonnoliti; rientrano pedalando lenti i guardiani della notte, con una sigaretta tra le labbra; i gatti salutano il giorno accoccolandosi presso la macchina dell’espresso, nelle più mattutine tabaccherie. Un andirivieni di biciclette senza incrocio possibile.
La città chiede bovi, porci e vitelli a chi li ha saputi allevare. Grossi autocarri li sbarcano dalla verde provincia, da Cremona, da Mantova, da Stradella, dal Lodigiano, dall’Emilia e dal Veneto: qualche carretta lunga, con uno o due capi, arriva di qui presso. Partiti avanti l’alba con dodici capi, e dodici dentro il rimorchio, ecco già si spalancano sulla banchina; e ne fuorescono sull’ammattonato i fessìpedi a ritrovare la luce, la sicurezza ferma del suolo. Incedono verso il veterinario bianco nella dignità della loro natura e delle lor forme, odorosi di vita: dopo la breve sosta alle barre, i «cacitt» li sospingono fuori del recinto di sbarco, (usando bastoncelli di frassino, come corte fruste impugnate alla rovescia), avviandoli verso la pesatura e le stalle.
Vedo la strapazzata masnada attendere nei posti di arrivo l’esame del veterinario, uno dopo l’altro, poi decèdere con qualche blando muggito lungo il piano inclinato della banchina: uno relutta, o s’adombra, si rivolge sui passi già fatti, costringe impaurito all’inseguimento, per tutto il piazzale, gli uomini dal bastone e dalla tunica blu, che lo rincorrono e lo prevengono, con vociferazioni e agitazioni delle braccia.
La nuova paura vince l’altra, e ripiglia il cammino prescritto. Nell’attesa del medico qualche animale appoggia la fronte a una barra (bavando una sua schiuma dalla bocca, a fiocchi) quasi per raggelare al contatto del ferro, dopo la scombussolata notte, il tumulto doloroso del proprio sangue.
Qualche altro ha un corno mezzo divelto, e ne sanguina: il caglio scarlatto gli si è raggrumato giù per il muso, l’occhio immalinconito sembra dimandarne la cagione alle cose, al mondo. I «caccini» dalla tunica blu sono uomini tozzi, tra lo stalliere e il bovaro: hanno una placca d’ottone sul petto, col numero, come i facchini delle stazioni.
Loro cómpito è guidare e sorvegliare i bovi dalla banchina alle stalle di sosta, alle pese, al dazio, al macellatoio, lungo l’intera percorrenza: ogni bestia paga un tanto, a forfait.
Il veterinario della Sanità Municipale eseguisce, come detto, una prima ispezione allo sbarco. Certi stallieri vuotano gli autocarri ed i traini dalla paglia trita e dallo strame notturno, l’ammucchiano in appositi padiglioni. Altri, nello spiazzo di ricevimento, lavano carri e autocarri con getti d’acqua.
Intanto anche un treno è arrivato: poiché la città compera dovunque il suo lesso, cliente ottima dei pascoli e di lontane foraggiature: da Postumia entrano i bovini di Croazia e d’Ungària. Tanti ne entrano, che il mercato degli animali in pianta s’è quasi trasferito colà.
Da un prossimo scalo ferroviario, che serve e disserve tutta l’annona milanese, la locomotiva della Direzione Macello (pare una vecchietta gobba, ma basta al suo compito) ha trainato il convoglio lamentoso fino alla banchina: i quadrupedi ne escono mezzo intontiti, digiuni: alcuni paiono infreddoliti, rattrappiti: con deboli gambe sotto il gravame della testa, delle anche e delle culatte. Il loro incedere è più peso del solito, timido e malsicuro.
Vedo che non tutti i cornuti hanno ricevuto quelle cure privative cui si sommettono i vitellini, per farne dei manzi che siano veramente degni di Milano. Per i piani inclinati discendono dalla banchina, lunghissima, tori insigni, i quali procedono a fatica pure all’ingiù, con la gravità decorosa di chi si sente onusto d’evidenti benemerenze. Le gambe di dietro paiono aver perduto l’articolazione del ginocchio: e sono esse la vera e l’unica causa del ritardo.
Ciò mi illumina circa il gran lavorare che ho fatto — tante volte! — a tavola. Masticavo, masticavo, con la soddisfazione di una molazza, in cartiera, che digerisca la resa d’un romanzo-toro.
Ecco le pesatrici automatiche: allineate in batteria sotto una pensilina in calcestruzzo armato, a chiusura del piazzale: ognuna la sua chiara cabina: ognuna è provveduta di un’aletta d’entrata senza ritorno, un po’ come i conta-persone dei musei; ma ci passa un bel bove.
Tutti gli sbarramenti d’avvìo e di raccolta sono in tubo di ferro verniciato di grigio: compiutisi il ricevimento e la conta, subito il personale di pulizia subentra a quell’altro, con ramazze e manichette ad acqua: per detergere la banchina e il piazzale.
Interrogata, ogni pesatrice enuncia il peso dell’animale su talloncini a stampa, e il responso determina il costo. I commissionari, (in rappresentanza del negoziante), e i macellai acquirenti presenziano la breve cerimonia.
Talora i bovini arrivano con qualche anticipo, da venti a sessanta ore, ed è ovvio, rispetto al giorno di macellazione: in tal caso vengono stabulati in ampie e chiare stalle, pagando un forfait per giorno e per capo. Ma per lo più dopo la prima pesatura, vengono avviati a quella fiscale del Dazio, indi ai padiglioni di macello.
Ne seguo il muto brancolamento, contenendo l’angoscia, il malessere. Mi dico e mi ripeto che si tratta di una necessità senza alternativa, il luogo, nel sole tepido, non è altra cosa se non un mercato, uno «stabilimento» qualunque…
I vitelli vengono trasportati alla loro fine su carri speciali, trainati da carrelli ad accumulatori. Tristi e direi présaghi, paralizzati in una rassegnazione senza più gemiti, ne vengono fatti discendere a quattro a quattro per una specie di barcarizzo e vi slittano come semplici pesi, qualcuno a culo indietro, piovendo entro i brevi recinti di entrata dell’ammazzatoio.
Qualche cosa di simile, più in là, deve accadere ai porcelli, clamorosi e striduli, inutilmente striduli.
Sospinti dai caccini, i buoi ed i tori arrivano invece con le loro gambe, lentamente, alla fortuna scarlatta. Entrano nel padiglione pavimentato di piastrelle rosse, diretti dalle stangate sempre più tenui e quasi oramai fatte pietose degli uomini dalla tunica blu: un uomo li attende, con una tunica blu, con un fazzoletto bianco al collo: la sua mano è lorda come quella di Macbeth, orribilmente armata, come quella di Macbeth: tutto il suo braccio è intriso in un colore da ’89.
Già chinano le corna, ristando: egli non li ha guardati negli occhi: li accosta a braccio disteso. E prova l’acume del ferro sulla cervice, dove sa, tra vertebra e vertebra; alza, dopo incontrato il punto, il coltello e lo vibra fulmineo: nel modo, direbbe Leibniz, del «minor male possibile». La bestia si accascia pesantemente: coi quattro zoccoli all’aria, riversa, gli occhi morenti, agitata ancora da stratti e da sussulti paurosi, senza attenuazione possibile.
Qualcosa di sacro si spegne, l’essere si adegua alla immobilità. Una nera polla dalla cervice, la stanchezza suprema.
Il secondo lavorante introduce nella ferita una bacchetta pieghevole, quasi un giunco, e la sospinge per entro la colonna vertebrale una quarantina di centimetri a spegnere i moti del cuore: gli ultimi sussulti della meccanicità nervosa accompagnano nella bestia moribonda questo provvedimento dell’uomo, un tremito si propaga fino agli zoccoli, poi tutto il greve corpo è inerte. L’organismo è ridivenuto materia: il costoso elaborato delle epoche, disceso di germine in germine traverso i millenni, è annichilato da un attimo rosso.
Sperimenti fatti con la pistola o con la fulgurazione han dato inconvenienti gravi, mi dicono, spreco di tempo. L’animale dovette soffrire, talvolta, durante alcuni minuti: fuggì ferito, ferì gli uccisori. Il «minor male» è nel procedimento adottato.
Tre padiglioni da trentasei posti cadauno costituiscono il macellatoio dei bovi: in un quarto si attende ai cavalli: in un quinto ai porcelli: un sesto è l’ammazzatoio dei vitelli. Poco capretto, a Milano, salvo che a Pasqua.
Dove si lavora ai bovini, un capo sala e un vice-caposala. Tabellazioni accurate assegnano per ogni animale il posto, la matricola, il proprietario. Due squadre di undici accudiscono, in un’ora e mezzo, alla macellazione e alla preparazione di 18 buoi cadauna, dando, in capo a quel tempo, le 18 bestie finite, pronte pel trasporto o la cella. Mezz’ora, poi, di lavatura e di riordino: quattro turni al giorno; ove occorra.
Sui diciotto, inanimati e distesi, gli undici si dividono il cómpito con ordine e con una incredibile celerità: chiazzati nelle vesti, intrise le mani e le braccia di sangue, hanno alla cintola una scatola di zinco in forma d’una rigida guaina: è la sede collettiva di due o tre lame assortite; ed ancora poi l’«acciarino» dove le affilano, ch’è come una lima lunga e rotonda dal manico di legno, quasi uno stilo od un’arma di riserva.
L’opera totale si suddivide nelle specializzazioni. Il sangue viene chiamato giù da un taglio alla gola e ne gorgoglia orribilmente nero, dapprima, in bacili di zinco; vuotati questi ancora fumiganti in una cisterna di raccolta montata su carrello. Un altro operatore spicca la testa e le zampe, appende la testa al gancio zincato d’una specie d’attaccapanni: e quella ti guarda ora dai semichiusi occhi, immoti e vitrei come d’un cornuto Oloferne.
Di poi il corpo viene agganciato posteriormente, dalle ginocchia mozze e scoperte, i due ganci fra tendine e osso; ed è sollevato mediante un verricello, di cui le ruote superiori corrono sulla rotaia a mezz’aria. «I faccettisti» aprono l’animale ed estraggono i visceri; uno apre, uno estrae. Passano rapidi da un animale all’altro, affilando nel breve intervallo i coltelli. Quello che apre disegna prima il gesto col ferro sopra la pelle, quasi prendesse la mira, perché il taglio deve riuscir fermo ed esatto. L’eviscerazione d’ogni bove richiede poco più d’un minuto: aperto l’addome, ch’è in alto, la grossa polta delle trippe se ne riversa, e decade turgida, e talora verdastra, dilatandosi sul pavimento, gonfia di indesiderabile sterco. I trippai accorrono con speciali carrelli, piovuti come avvoltoi sulle ventraglie, e par che le rubino di tra i piedi agli operatori, asportandole verso i loro calderoni fetenti.
Seguono la scuoiatura, le operazioni di «abbellimento». La prima viene eseguita da cinque lavoranti sugli undici: uno «scalfa» i quarti di dietro, due imprendono invece a scorticare le due metà della pancia, fianco destro e fianco sinistro, e vengono detti doppioni. Due lavorano la schiena a distaccarne il «groppone», salito il primo sopra un alto sgabello: l’altro lavora dal basso.
La scorticatura è un’operazione delicata, intesa a cavar di dosso alla vittima la di lei pelle, senza sciuparla; la pelle è assai ricercata, venduta a un prezzo che ammonta fino al 10 per cento del valore totale della bestia. Così dèvesi evitare ogni «rigatura» o mala raschiatura che ne possa invilire il prezzo di vendita; incidere il connettivo soltanto, che la lega al grasso ed al mùscolo.
A Milano si opera la scuoiatura con coltelli ordinari a larga lama per le parti ondulate, con le scuoiatrici elettriche Bignami per le pance e le schiene. L’operaio si butta in ispalla uno speciale telaietto a zaino con il motorino elettrico, il giro-moto viene trasmesso alla scuoiatrice da un tubo snodato. La scuoiatrice ha forma d’un largo e piatto anello del diametro d’una dozzina di centimetri, provveduto di Manico. Delle lamette tipo rasoio girano celermente fra i due paralame anulari affacciati.
Una volta macellata la bestia, e scuoiatala, si procede al suo abbellimento.
L’«abbellimento» è una sagace preparazione dell’animale perché figuri netto e generoso di carne, senza pendule bacche di grascia o frastagliamenti di tèndini. Il coltello non è ormai che il pettine o l’arricciabaffi di un parrucchere ambizioso.
Certe drupe, certi strati di bel grasso compatto nella regione spaccata dello stracùlo vengono cincischiati vezzosamente a punta di coltello: un’acconciatura per il ballo di mezza quaresima.
Sopita l’angoscia, l’animo ormai si distende in una mattutina veduta di beccheria, nomi intesi ogni qualvolta in cucina rampollano dalle aperte costate, messaggeri del pranzo.
Il coltello agisce rapido e conscio: e va d’attorno leggero leggero ai ritocchi, un panno deterge dai carnicci e dal sangue la liscia parete del muscolo striato di chiari tendini; e poi l’ascia imprende a lavorare sommessamente, del macellarone più alto, che pare insonnolito sul mestiere: (ma che sa dove dare del taglio). Egli fende la colonna vertebrale con simmetria rigorosa, aprendo fra le due mezzène una finestra soltanto, che le lasci ancora congiunte, per buona figura, presso le culatte e la spalla.
Uno degli undici, con un grembiule anatomico e una sanguinosa borsa di cuoio semiaperta davanti, trascorre intanto da un animale appeso a quel dopo, lesto ladro fra le occupate menti degli altri: defrauda in un baleno le bestie delle loro ghiandolette essenziali, ipofisi, timo, surrenale, tiroide, paratiroide: e alle vacche gli ruba subito le ovaie.
Ogni testa cornuta, appesa al gancio con il «linguino» già fatto, egli la solleva di un poco mettendoci sotto la sua stessa testa imberrettata alla diàvola, pontando del corpo lavorando con le mani, col ferro e con gli occhi all’insù, come a staccare il batacchio d’una campana: e ne spicca invece qualche moruletta rossa, appiccicosa e molliccia.
In pochi minuti la sua borsa di cuoio è piena di opoterapia: i più autorevoli farmacologisti ne caveranno tiroidine e ovarine e preparati di ogni maniera, normalizzatori d’ogni più periclitante sistema endocrino. Pancreas e aggeggi del toro vengono acquistati a parte, dato anche il volume, per dedurne pancreatina e insulina regolatrice del tenore di zùcchero, o l’essenza quinta di una maschia generosità del pensiero.
Zitellone redente dall’acidità (di stòmaco) e diabetici ridivenuti amari come il calomelano devono a questi dieci minuti di lestezza e di previdenza la recuperata salute.
Ma ci vuole una formula! Sentito il parere del distillatore di formule, gli opoterapisti ne distilleranno mirifiche fiale; barbugliando in pentole senza precedenti storici le loro fantasiose decozioni. Le tre fatidiche sorelle compiranno il supremo incantesimo della vita, zoccolando d’attorno la caldaia a cavalcioni d’una scopa, in un ritmo ossitono da diavolesse:
Double, double toil and trouble:
Fire, burn: and, cauldron, bubble.
Tuoni e lampi! La più scarmigliata vaticinerà nello specchio discendenti maschi per otto generazioni ininterrotte a chiunque avrà comperato e pagato quel filtro.
E il lavoro continua, raddoppia. Le pelli, sùbito, ai commissionari delle concerie.
Tra un’ala e l’altra d’ogni padiglione è un andito ampio, coperto: vi vengono pulite, arrotolate, pesate, imbarcate. Il sangue, sùbito, che ancora fuma dai carrelli, a un attiguo e recentissimo impianto, che ne deduce concimi, lavori plastici, ornamenti, collanti.
È venduto fino a 120 lire il quintale. Intanto un andirivieni di garzoni: e alcuni omacci con la catena d’oro sulla pancia, che hanno l’aria di sapere perché son lì. Uno del Municipio collauda di timbri violàcei le bestie, ancora appese dopo ultimata la toilette. Mentre le doppie mezzène vengono carrucolate al frigorifero per il deposito e la frollitura, gli autocarri dei macellai si colmano d’altre mezzène e di quarti attingendoli dal frigorifero stesso o direttamente dai padiglioni: ingombrando tutta la lunga galleria di caricamento che divide quello da questi, dove incurvi garzoni trasferiscono a spalla tutto il meglio che possono, profumati quarti e mezzène, spalancati vitelli.
Li avevo persi di vista, creature della tepida innocenza, al triste limite dell’ammazzatoio, davanti i cucinoni maleolenti delle trippe, la loro anima pàrgola già quasi vanita nell’obbedire, prima ancora che l’uomo alto li mazzerasse alla nuca, senza lamento.
Neppur cadono, quasi: paiono ruzzare ad aggomitolarsi in un gioco. Vengono agganciati agli zoccoli dietro, sollevati meccanicamente sopra una vasca, sgozzati: il bruno orrore sgorga oramai da un oggetto.
Tutta la bisogna non richiede cinquanta secondi: preciso e infallibile è l’operaio dalla mazza, preciso e certo quell’altro che deve servirsi della lama abominevole.
Nuovamente carrucolati lungo le rotaie pensili fino ai singoli posti di lavorazione, dapprima un operaio li incide rapidissimo all’umbilico: ed applica poi nella ferita l’ugello d’una manichetta ad aria compressa, insufflandovi quanto ci vuole per gonfiarli a dovere, come dei maiali. «Parevano tanti cani appiccati», ed ecco in un attimo sono già gonfi: turgidi e netti: la lavorazione riesce più precisa sulla pelle e sulle carni distese, la punta e la lama incideranno più pronte i tessuti.
Ed ecco i compressori del frigorifero, che imperturbati motori vengono azionando nella Centrale pulita: coperti di candida neve sulle tubazioni d’espansione. Il frigorifero comprende un deposito generale del Consorzio per sosta fino alle 24 ore (già computata nel forfait di macellazione) nonché le celle dei singoli signori macellari. Temperatura ideale del deposito: cinque, sei gradi sopra lo zero.
Bianchi veterinari si aggirano per i padiglioni alla visita ultima, esaminando visceri e carni: chiedono a prestito un ferro, incidono, scrutano. Frequente la tubercolosi, massime per i bovini di stalla: e si rivela con caratteristici nòduli alla superficie dei polmoni e all’interno delle due pleure, talvolta è manifesta nel rene, nei vasi linfatici.
Allora i visceri vengono inviati alla sardinia, bolliti in autoclave seduta stante, degradati a materia e concime nella verde quiescenza della pianura. I veterinari si trasferiscono in bicicletta da un padiglione all’altro, vegliano a che nulla di sospetto abbia a varcare le chiuse barriere del macello: investiti del fidecommisso di una città e d’un popolo, la loro opera si esplica in un’attenzione continua, che vieti il male: constatandolo e distruggendolo davanti le porte della città.
Ruit hora. Il mercato del bestiame vivo e delle carni, nel suo clamore pieno di omaccioni, raccoglie alle strette di mano e ai buoni patti la folla dal mestiere impellente: negozianti, macellai, commissionari (le tre categorie tipiche): più qualche mediatore superstite ai tempi, che agisce per conto di una macellaia femmina padrona di negozio. (3)
Taluno della provincia ha un fazzoletto al collo, il cappello all’indietro. Sùdano, bofónchiano, annotano adagio adagio i suoi pesi e i suoi costi in un calepino bisunto, che fa le orecchie, con un lapis nero senza punta che a me farebbe venire subito il nervoso: e per loro, invece, è proprio quel che ci vuole, amico intimo dei mozziconi di «toscano» in fondo a una tasca.
Già gli autocarri strombazzano, chiedono il passo ai più grevi, nella galleria di caricamento dove ognuno tira a cavarsela quanto più presto gli è dato: fremono già d’irrorare del suo giusto vitto (per la dimane) la città che precipita oggi al suo giusto mangiare, verso i dodici tocchi.
Alcuni pochi sono dei baldracconi sfiancati, sanguinolenti, col tetto a pioventi, d’un color verde municipale 1888: altri scivolano via lisci e laccati di bianco, modernissimi, ermetici: fuggitivi ai lontani spacci e negozi.
Undici tocchi: e tutta una filologia scaturirà nel negozio tra la bilancia e la cassa, tra il garzone di banco e la serva, tra l’accetta e il libretto: (4) una nomenclatura conclusiva e perentoria, combinata di punta, di lonza, di canetta, di aletta, di scamone, di bamborino, di fiocco, di magatello, di filetto, di fesa, di culatta, di polpa. Ogni storia si adempie e si determina in una filologia.
La complessa organizzazione del Macello Pubblico comprende un importante reparto di microscopia che fa capo all’Ufficio municipale d’Igiene e di Sorveglianza Veterinaria: e infine una scuola per allievi macellai. L’esame clinico degli animali vivi, delle carni e dei visceri viene così ad essere fiancheggiato da indagini microbiologiche sulle carni stesse, sui sieri, sul sangue. Si isolano e si perseguono mediante cultura bacillare ed analisi microscopica i germi de’ mali infettivi, del carbonchio, ad esempio, della morva, dell’afta. La presenza della trichina, il microscopico verme che infetta le carni del maiale e dell’orso, è confermata mediante proiezione luminosa traverso la lastrina del preparato. Un apparecchio fotoscopico palesa con chiara evidenza sul telone a muro i gomitoletti insidiosi de’ vermi, che appaiono come rannicchiati tra fibra e fibra, quasi fossero a pensione dentro il fascio muscolare.
La scuola dei garzoni macellai, sorta nel clima del buon volere fattivo ad opera del Consorzio e del Municipio, auspici il Sindacato di categoria e la Federazione Provinciale del commercio, è intesa a munire di un qualche fanale conoscitivo i velocipedastri dal camiciotto rigato e dal collo rubizzo che sogliono pioverci addosso nelle vie di città quando meno ce lo aspettiamo, alati messaggeri di ossobuco, lacett e rognon. Comprende due corsi, primo e secondo, dove nozioni pratiche sul bestiame da macello, sui suoi pregi e difetti, sui modi di constatazione di essi, sulle razze tipiche, sull’allevamento, sulla tecnica del mercato, sul taglio, sul computo delle rese, sull’utilizzazione de’ ricavati, sulle malattie più frequenti, sulle qualità delle carni, sui nomi d’uso nelle diverse piazze, ecc. ecc., vengono impartite dal signor Gaetano Bestetti con chiara voce e intelligente tranquillità d’animo. Egli ha tra mano il bastoncello de’ «cacitt» e se ne serve come il geografo della bacchetta a individuare sui corpi appesi i singoli organi, i tessuti, le parti. Esercitazioni di taglio (come per i tagliatori sarti) completano il corso, su qualche maiale o vitello o quarto di bue, agganciato ad uno speciale cavalletto verde pieno di opportunità didattiche.
I due libri di testo, di prima e seconda classe, sono molto chiari, conclusivi, e ben fatti.
Alla fine del corso alunni e docenti si raccolgono in gruppo per una gioviale fotografia collettiva sotto il sole di giugno: e la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde conferisce lire 150 cadauno ai diplomi di primo grado, 100 ai secondi, 50 ai terzi.
_____________________________________
1. Ai limiti della campagna, nella zona periferica esterna dove ebbero sistemazione i macelli, sorgono case recenti, a sei piani: già cittadine e purtuttavia isolate: assai brutte, nei fianchi scialbati e nel tetto, in paragone delle vecchie cascine lombarde che i filari de’ pioppi e dei salci quasi nascondono, non fosse il fumo d’un camino a tradirle. Queste cascine, regolarmente distanziate l’una dall’altra, segnano la vecchia misura e la necessaria «giurisdizione» agricola della pianura lavorata.
2. Intendi: l’energia elettrica viene trasformata alla tensione di distribuzione; ch’è assai minore di quella di trasporto.
3. I negozianti vendono o commerciano bestiame in proprio: i commissionarî trattano per conto di terzi, cioè ditte importatrici o allevatori lontani: i macellai sono acquirenti, con bottega in città, e rivendono al pubblico.
4. Secondo il vecchio costume dei milanesi, il macellaio vende a credito, alle famiglie agiate: l’acquisto giornaliero viene segnato (marcàa) in un quadernuccio rilegato d’una teletta di poco prezzo, nera o rossa o azzurrina; sul fronte, impressa in oro, una testa di bue cornutissimo. Il regolamento del conto si fa a ogni fine mese. Il quadernuccio si chiama el librett, ed è uno dei pochi libri che ornino di lor presenza le case degli agiati lombardi.
_____________________________________
published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
Please note that the above excerpt is for on-line consultation only.
Reproduced here by kind permission of Garzanti Editore s.p.a., Milan © 1988-93 (SGF I 19-30).
© 2000-2009 by Garzanti & EJGS.
Artwork © 2000-2009 by G. & F. Pedriali.
Framed image: after detail from Jean-Baptiste-Siméon Chardin, The Ray, 1728, Musée de Louvre, Paris.
All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.
EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.
EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals.
Dynamically-generated word count for this file is 4343 words, the equivalent of 13 pages in print.
lunedì 30 novembre 2009
domenica 29 novembre 2009
Biagio Cepollaro, “Nel fuoco della scrittura” in mostra a Milano (da Nazione Indiana)
Inaugurazione 1 Dicembre 2009 alle 18,30
ARCHI GALLERY OFFICINA DEGLI EVENTI
via Friuli,15, 20135 Milano. Tel 02-70601901
Dopo Roma (La Camera verde, 2008), Napoli (Ilfilodi partenope, 2009), Piacenza (Laboratorio delle Arti, 2009) giunge a Milano la mostra di Biagio Cepollaro Nel fuoco della scrittura, il cui libro omonimo è stato pubblicato da La Camera verde. Si tratta di una quindicina di tavole dipinte di medie e grandi dimensioni, e di una decina di pezzi tra carte e stampe digitali su tela con interventi successivi.
C’è la scrittura, ci sono le ‘cose scritte’ e c’è l’atto dello scrivere, il movimento del braccio e della mano nella percezione del contatto con il supporto.
www.cepollaro.splinder.com
“E c’è un atto dello scrivere che è un vero e proprio atto sacrificale in cui la parola appena scritta è sin dall’inizio solo una traccia e uno strato della nuova (che magari è la stessa) parola scritta e così, tendenzialmente, all’infinito.
L’atto dello scrivere a questo punto è un fare strato su strato che non è cancellazione ma sedimentazione della traccia. Tale sedimentazione è già immagine e visione: quando ciò che conta non è la sua funzione informativa né quella espressiva ma il fisico esserci, il segno di un’invocazione ripetuta, di un’apertura del cuore, di una speranza.
Quando questo fisico esserci è già struttura compositiva, è già senso al di là del significato.
E’ la danza della parola che come per la danza dei dervisci gira in tondo: non è più importante il corpo che si muove, la figura della danza, ma ciò che di questo movimento resta, la scia di un abbandono estatico. E c’è in questo tipo di danza un‘intenzione cosmologica e cosmogonica, il danzatore, ad esempio, mima il moto dei pianeti muovendosi in senso antiorario sul proprio asse.
Anche l’atto dello scrivere può avere la stessa intenzione quando riporta sul piano l’organizzazione di un suono. Millenni testimoniano questa possibilità. Scrivere dimenticando per poter ancora scrivere, come si ara un terreno, nell’estenuazione dell’andare e del venire, del sorgere e del tramontare.”
Biagio Cepollaro, da Nel fuoco della scrittura.
Per la critica sul lavoro pittorico di Cepollaro rimando all’e-book www.cepollaro.it/Recensioni.pdf
Etichette:
cose a caso,
cultura,
libri,
polis
giovedì 26 novembre 2009
Sono tutti democratici. di O.O
Che cosa sarà mai la dittatura? Mah, potremmo dire da italiani che il fascismo era una dittatura ma ormai abbiamo una stupenda democrazia. Certo! Ah si, e dove? Atto primo: censura televisiva. Atto secondo: censura culturale. Atto terzo: essere governati da imbecilli. Atto quarto: abbassare il livello culturale per vincere ancora. Di cosa sto parlando? Della dittatura, direte voi! Bravi, vi dico io. La democrazia è cosa diversa. Atto primo: guzzanti silurata, direzione tg3 cambiata, santoro processato, Fede glorificato, il premier telefona alla rai e colonizza la trasmissione. Atto secondo: Bondi che scrive poesie per la madre del capo alla cultura, buttiglione parla come filosofo, crocifissi intoccabili, pillola abortiva bloccata, chiesa comandante in casa nostra. Atto terzo: La Russa dice idiota ad Odifreddi, Brunetta dice che vinceva il nobel, a varallo escludono la libertà di Culto, la Lega partito di analfabeti al potere, il premier è un puttaniere delinquente. Atto quarto: libri non comprati, tutti a vedere de sica a natale, nessun laureato in matematica , tutti cattolici senza aver letto il vangelo, la domenica scellta booleana: o allo stadio o a messa, qualcuno va a tutte e due. Di cosa parlo? Dell'Italia: "L'Italia è il paese che amo"(Berlusconi 1994) e dunque ha deciso di pisciarci sopra quel nano arrapato del cazzo. Siamo tutti democratici ma viviamo in una dittatura di fatto gretta e sporca dove io potrei rischiare la querela per aver detto la verità. La legge è uguale per tutti. Davvero? Non si direbbe. Berlusconi è uno dei maggiori delinquenti che la storia vanti e governa uno stato che ormai è in pasto alla stampa estera, siamo nella merda e il popolo quello che gira in ferrari e quello che fa la fame è contento di nuotare a stile tanto che la puzza "gli pare profumo". Due strade si pongono tra lo spirito nobile e la libertà: la fuga o il suicidio. Io conosco qualcuno che ha scelto la terza, l'alienazione, sembrare idiota per vivere senza che qualcuno ti veda extraterrestre ma cercare di agire con virtù nel proprio campo azionale sperando con ansia nel conflitto nucleare, quando l'uomo scomparirà la terra si salverà e piante e animali potranno nuovamente godere dello spirito della natura.
O. O.
O. O.
domenica 15 novembre 2009
Siore e siori, fumetti e matematica. La strana coppia.
Che cosa non si trova sul web? Girovagando per le segrete stanze della rete mi sono imbattuto in un elenco di fumetti (molto belli) che hanno come soggetto, pensate un po', la matematica. Grandi e piccini possono così divertirsi attraverso l'ausilio dell'antica arte del fumetto accoppiata alla madre di tutte le cose: la matematica. Ecco dove.
venerdì 13 novembre 2009
Torna Quorbaki (ora Qourbaki). e.b di nuovo a lavoro
Il blog di e.b ha riaperto i battenti, e inizia subito con argomenti "aulici": Dio. La dimostrazione di Kurt Gödel, logico rivoluzionario, citata dal nostro povero mentecatto italiano preferito, Buttiglione, poi freddato da Odifreddi che quella dimostrazione, in italia, la editata lui. il link è lo stesso: quorbaki
L'episodio meschino a cui si riferisce è il seguente: Buttiglione smerdato
L'episodio meschino a cui si riferisce è il seguente: Buttiglione smerdato
Retrocomputing Excursus
Posto qui con piacere il link di vimeo di una lezione di storia dell'informatica tenutasi a Varese per la cattedra di Federico Gobbo con la partecipazione del Prof.sorre Marco Benni. La storia "pratica" dell'informatica dai main frame passando alle calcolatrici programmabili e alla storia di apple (Jobs etcc).
Ecco il link, veramente istruttiva:
Lezione "Retrocomputing Excursus"
Ecco il link, veramente istruttiva:
Lezione "Retrocomputing Excursus"
giovedì 12 novembre 2009
Poesia e libero arbitrio.
Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;
Then took the other, as just as fair,
And having perhaps the better claim,
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that the passing there
Had worn them really about the same,
And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.
I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.
Robert Frost, The road not taken, 1920
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;
Then took the other, as just as fair,
And having perhaps the better claim,
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that the passing there
Had worn them really about the same,
And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.
I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.
Robert Frost, The road not taken, 1920
Etichette:
arte,
cultura,
letteratura,
poesia
mercoledì 11 novembre 2009
Il linguaggio rivelatore.(da http://www.agoravox.it/tempo-libero/cultura/Il-linguaggio-rivelatore)
Macello umano! Trattati come bestie! Tenuti come degli animali! Ti schiaccio come
una zanzara! Queste sono solo alcune delle espressioni che appartengono al nostro linguaggio (in questo caso l’italiano) e che denotano un elemento su cui vale la pena riflettere. Sono tutte espressioni con accezione negativa ed hanno tutte come soggetti caratteristici gli animali non umani. Se analizziamo parola per parola questi enunciati non capiamo immediatamente perché rimandano semanticamente a qualcosa di negativo. Facciamo un esempio:
(a) Trattati come bestie
Questo enunciato è composto da tre parole: (1) Trattati; (2) come; (3) bestie;
Combinando queste tre parole otteniamo l’enunciato (a), che pur avendo un
significato che potremmo parafrasare dicendo che qualcuno è stato trattato come
bestie, non rimanda comunque a quel significato che comunemente verrebbe
attribuito ad (a) da una comunità di parlanti. Il linguaggio ha in questo caso quella
che potremmo definire una funzione rivelatoria. Affinché (a) possa essere realmente capito da un parlante della lingua italiana quel parlante deve già possedere come insita un’ulteriore conoscenza di cui tuttavia non è sempre realmente consapevole.
Deve cioè conoscere il trattamento delle bestie con cui viene effettuato il paragone.
Si parla spesso della disinformazione comune sulla reale condizione degli animali, eppure, qualcosa su questa condizione sembra essere conosciuto da tutti, ed è proprio il nostro linguaggio, fonte principale di espressione, a rivelarcelo. Enunciati come (a) esemplificano solo una piccola porzione del vocabolario umano che risulta davvero fornito di insulti e costatazioni che hanno come oggetto gli animali. Prendiamo la stessa parola “bestia”, spesso usata senza alcun tipo di contorno linguistico ma già rappresentante un insulto se pronunciata con la giusta intonazione. Perché qualcuno dovrebbe prendere come insulto l’essere definito “bestia”?
Eppure questo accade costantemente come se una sottile forma di razzismo sia insita in ogni parlante, come se la presunta superiorità intellettuale e morale dell’uomo, sia in qualche modo inconscia anche in chi non ha mai riflettuto su questi argomenti. Esiste una tesi in linguistica conosciuta come l’ipotesi Sapir-Whorf secondo cui il linguaggio influenza il pensiero. L’ipotesi forte secondo cui questo sia completamente vero è stata ormai confutata, ma la formulazione debole, secondo cui il meccanismo d’influenza del linguaggio sul pensiero sia in parte vero è comunemente accettata. Ragionando su questo fenomeno sulla scorta di quello che le espressioni anti – animaliste ci rivelano potremmo provare a chiederci: crescere con una lingua colma di artifici linguistici, volti a sottolineare inconsciamente una superiorità dell’uomo nei confronti dell’animale, può in qualche modo contribuire al disinteresse umano nei confronti della questione animale?
Personalmente credo sia possibile. Sin da piccoli, parenti e genitori, sono pronti ad educare il figlio affinché si lavi e non puzzi come un maiale, affinché studi e non diventi un somaro e affinché mangi carne e diventi forte come un bue (che tra l’altro mangia verdura). Penso che una sana riflessione sulle proprie espressioni linguistiche possa giovare a molti parlanti che spesso utilizzano enunciati di cui danno per scontata la valenza semantica ma di cui ignorano la reale e sofferente condizione che questi stessi enunciati denotano. Se il linguaggio è uno specchio attraverso cui guardare l’umanità non è difficile rintracciare i motivi principali che hanno portato allo sfruttamento animale; pulire questo specchio depurando il linguaggio dal suo specismo e razzismo di fondo potrebbe portare in futuro l’uomo a pensare, guardare e agire con più rispetto.
Leonardo Caffo
una zanzara! Queste sono solo alcune delle espressioni che appartengono al nostro linguaggio (in questo caso l’italiano) e che denotano un elemento su cui vale la pena riflettere. Sono tutte espressioni con accezione negativa ed hanno tutte come soggetti caratteristici gli animali non umani. Se analizziamo parola per parola questi enunciati non capiamo immediatamente perché rimandano semanticamente a qualcosa di negativo. Facciamo un esempio:
(a) Trattati come bestie
Questo enunciato è composto da tre parole: (1) Trattati; (2) come; (3) bestie;
Combinando queste tre parole otteniamo l’enunciato (a), che pur avendo un
significato che potremmo parafrasare dicendo che qualcuno è stato trattato come
bestie, non rimanda comunque a quel significato che comunemente verrebbe
attribuito ad (a) da una comunità di parlanti. Il linguaggio ha in questo caso quella
che potremmo definire una funzione rivelatoria. Affinché (a) possa essere realmente capito da un parlante della lingua italiana quel parlante deve già possedere come insita un’ulteriore conoscenza di cui tuttavia non è sempre realmente consapevole.
Deve cioè conoscere il trattamento delle bestie con cui viene effettuato il paragone.
Si parla spesso della disinformazione comune sulla reale condizione degli animali, eppure, qualcosa su questa condizione sembra essere conosciuto da tutti, ed è proprio il nostro linguaggio, fonte principale di espressione, a rivelarcelo. Enunciati come (a) esemplificano solo una piccola porzione del vocabolario umano che risulta davvero fornito di insulti e costatazioni che hanno come oggetto gli animali. Prendiamo la stessa parola “bestia”, spesso usata senza alcun tipo di contorno linguistico ma già rappresentante un insulto se pronunciata con la giusta intonazione. Perché qualcuno dovrebbe prendere come insulto l’essere definito “bestia”?
Eppure questo accade costantemente come se una sottile forma di razzismo sia insita in ogni parlante, come se la presunta superiorità intellettuale e morale dell’uomo, sia in qualche modo inconscia anche in chi non ha mai riflettuto su questi argomenti. Esiste una tesi in linguistica conosciuta come l’ipotesi Sapir-Whorf secondo cui il linguaggio influenza il pensiero. L’ipotesi forte secondo cui questo sia completamente vero è stata ormai confutata, ma la formulazione debole, secondo cui il meccanismo d’influenza del linguaggio sul pensiero sia in parte vero è comunemente accettata. Ragionando su questo fenomeno sulla scorta di quello che le espressioni anti – animaliste ci rivelano potremmo provare a chiederci: crescere con una lingua colma di artifici linguistici, volti a sottolineare inconsciamente una superiorità dell’uomo nei confronti dell’animale, può in qualche modo contribuire al disinteresse umano nei confronti della questione animale?
Personalmente credo sia possibile. Sin da piccoli, parenti e genitori, sono pronti ad educare il figlio affinché si lavi e non puzzi come un maiale, affinché studi e non diventi un somaro e affinché mangi carne e diventi forte come un bue (che tra l’altro mangia verdura). Penso che una sana riflessione sulle proprie espressioni linguistiche possa giovare a molti parlanti che spesso utilizzano enunciati di cui danno per scontata la valenza semantica ma di cui ignorano la reale e sofferente condizione che questi stessi enunciati denotano. Se il linguaggio è uno specchio attraverso cui guardare l’umanità non è difficile rintracciare i motivi principali che hanno portato allo sfruttamento animale; pulire questo specchio depurando il linguaggio dal suo specismo e razzismo di fondo potrebbe portare in futuro l’uomo a pensare, guardare e agire con più rispetto.
Leonardo Caffo
sabato 7 novembre 2009
CONTRO I PREGIUDIZI VEGETARIANI, CONTRO L'EGOISMO (da www.comedonchisciotte.net)
Sono molti i luoghi comuni, i pregiudizi e i dubbi che si è costretti a sopportare, nei confronti del vegetarianismo militante. L’ingenuità e la falsità di tali argomentazioni rendono semplice il compito delle controparti. Sfatiamo qualche luogo comune.
1. Il consumo di carne come qualcosa di necessario per la salute:
Esiste la falsa credenza secondo cui il consumo di carne deve considerarsi necessario non solo per godere di buona salute, ma anche per non incappare in problemi di denutrizione. Si arriva perfino a collegare malattie come l’anoressia e l’anemia al vegetarianismo, un legame completamente sbagliato. Tutti gli elementi nutritivi, atti a condurre un dieta equilibrata e sana, sono contenuti in alimenti di origine vegetale. Il mito dell’assenza di proteine e di vitamine (tra le quali la B12) è stato abbondantemente smentito.
Di fatto, sempre più medici e nutrizionisti raccomandano la dieta vegetariana. L’OMS (Organizzazione Mondiale per la Salute) raccomanda la dieta vegetariana come la più salutare. Le statistiche dimostrano che le persone vegetariane vivono più a lungo, risultano meno dispendiose per la sanità pubblica e sono colpite da un minor numero di malattie oncologiche e cardiovascolari. Allo stesso tempo, vi sono sempre maggiori prove dirette del legame tra patologie che interessano lo stomaco, patologie cancerogene, cardiovascolari ecc. … e il consumo di carne.
Si crede anche che il vegetarianismo limiti molto la dieta di una persona, quando invece, gli alimenti di origine animale girano intorno ai 2.000 derivati e quelli di origine vegetale intorno ai 10.000. É assurdo pensare che noi vegetariani mangiamo sempre le stesse cose. Si possono preparare dei piatti deliziosi combinando legumi, cereali, ortaggi, frutta, frutta secca, ecc. … Di solito chi fa queste affermazioni segue una dieta che eccede nell’uso di carne e non riesce nemmeno ad immaginare quanto possano essere gustosi i piatti vegetariani, proprio perché non li ha mai assaggiati, non è mai andato più in là della carne.
Affermare che il vegetarianismo è sinonimo di malnutrizione o di denutrizione è un pregiudizio come molti altri prodotti dall’ignoranza e dal rifiuto della diversità, di chi sceglie un modo diverso di consumare. È un modo per isolare le minoranze, quelli che non agiscono come te, considerando a priori il consumo di carne come qualcosa di eticamente corretto. È anche un modo per auto-giustificarsi: “quello che faccio è buono”. Ma i dati e la realtà sono sempre lì e, come per molti altri aspetti della vita, solo nel mondo dei ciechi non si vuole vedere.
2. È che siamo onnivori…mangiamo carne per natura:
con questa grossa verità si vuole giustificare il fatto di contribuire, attraverso il consumo di carne, alla più selvaggia delle torture e delle morti patite dagli animali. Di certo siamo onnivori, ma che significa essere onnivori? Significa che il tuo corpo accetta ogni tipo di alimento, che non li rifiuta, ma questo non vuol dire che si è obbligati a mangiarli e che sia una cosa negativa rifiutare un determinato tipo di alimento. Insomma, non vuol dire che abbiamo bisogno di mangiare carne, ma semplicemente che in una concreta condizione evolutiva, il tuo corpo una volta ingerita non la rifiuta.
Dobbiamo però tener conto del fatto che l’essere umano, a differenza del resto degli animali, possiede un elevato grado di capacità intellettive e può scegliere cosa mangiare. Nell’attuale grado di sviluppo, dove in molti luoghi la depredazione e forme simili sono scomparse, scegliere di non mangiare carne è perfettamente compatibile col fatto di essere onnivoro.
Spesso si dice che gli animali si mangiano l’un l’altro e che noi esseri umani, come parti indissolubili di questa catena, siamo obbligati a mangiare carne in modo naturale al fine di non provocare uno “squilibrio”.
Prima di questo bisogna dire che non tutti gli animali si mangiano l’un l’altro, esiste una moltitudine di specie erbivore. Inoltre, gli animali che si mangiano tra loro non possiedono la capacità che abbiamo noi di scegliere cosa mangiare, essendo guidati più dall’istinto che dalla razionalità, cosa che noi possiamo (dobbiamo) invertire. In nessun modo si può affermare che il vegetarianismo di massa (cosa alquanto improbabile che si produca) possa provocare uno squilibrio naturale causando un “disastro ecologico”, anche perché la natura stessa possiede i suoi meccanismi di autoregolazione.
Bisogna considerare il fatto che, anche se siamo onnivori, il nostro corpo rassomiglia molto di più a quello degli erbivori che a quello dei carnivori. Scegliere di non mangiare carne non urta nessun principio naturale. Ma tutto dipende da cosa intendiamo per “naturale”. Le persone che difendono il consumo di carne perché è “naturale” si contraddicono. Naturale potrebbe essere, in ogni caso, se privi della nostra capacità di scegliere ciò che mangiamo e/o, potendo mangiare dei vegetali, ricorressimo alla caccia per non morire di fame e divorassimo un animale. Ma c’è forse qualcuno che mangia carne in un contesto come questo, nella Spagna dei giorni nostri?
Vediamo. Gli animali vengono prelevati dal loro habitat naturale e condotti in una fattoria, qui vengono fatti ingrassare in modo artificiale attraverso prodotti chimici e ormoni, vengono ammassati uno sull’altro e torturati. Attraverso potenti fonti luminose, a cui vengono sottoposti nel corso delle 24 ore, si provoca in loro uno stato in cui non riescono più a distinguere il giorno dalla notte, condizione che li porta ad ingrassare di più. Dopo di che vengono uccisi secondo un procedimento a catena* brutale e sanguinoso, facendo uso di macchine che provocano in loro una sofferenza atroce. È forse questo il processo naturale di cui parlano quelli che difendono il consumo di carne?
Con ciò non vogliamo dire che se gli animali stessero in migliori condizioni di vita-morte difenderemmo il consumo della carne. Siamo contro qualsiasi spargimento di sangue animale non necessario al consumo umano, poiché per mangiare un animale devi ucciderlo (con più o meno sofferenza) e se questo può essere evitato, di certo è molto meglio farlo. Ma nella società capitalista l’ambizione affaristica al guadagno, ammassa e tortura gli animali in queste condizioni, portandoli verso una morte selvaggia con metodi non proprio naturali.
È chiaro, che ci sono molti modi di intendere ciò che è “naturale”. Per la chiesa è innaturale usare un profilattico o essere omosessuale, perché essa crede che l’indole naturale di ogni essere umano sia la procreazione; allo stesso modo per gli esseri viventi è naturale mangiare carne, anche se per farlo si impiegano i metodi più innaturali possibili, anche se sulla loro stessa vita gravano principi innaturali, ecc…. Curiosamente, il fatto di mangiare carne viene difeso sulla base del principio di ciò che è “naturale” e sono “contro natura” quanti credono che la tortura e il dominio dell’animale siano evitabili in qualunque forma, come qualcosa di ingiusto e innaturale; dall’altra parte, è più che ragionevole che gli esseri sensibili non patiscano dolore. Difendere il consumo di carne come qualcosa di naturale significa difendere la tortura e la morte non necessaria come qualcosa di “naturale”.
3. Le piante sono esseri viventi, anche loro soffrono:
È certo che le piante sono esseri viventi. Ed è certo che noi vegetariani le mangiamo. Per di più, se qualcuno che mangia solo carne dicesse che “lui rispetta le piante” direbbe una grossa fesseria, poiché gli animali mangiano per lo più piante e lui non fa che mangiare l’animale che si è mangiato queste piante, nutrendo così con esse il suo corpo. In fin dei conti tutti mangiamo piante però…Soffrono? Finora, nessuna indagine è riuscita a dimostrare che sia così, esse possono apprezzare moltissime più cose di quanto crediamo ma la sofferenza e il dolore, allo stesso modo in cui lo patiamo noi animali (umani e non), non le riguarda. Le piante non possiedono né un sistema nervoso né cellule sensitive del dolore, perciò è abbastanza improbabile che soffrano. E se provano qualcosa questo non può essere comparato né qualitativamente né quantitativamente con la sofferenza degli animali.
Detto questo conviene ricordare che dobbiamo mangiare per sopravvivere, possiamo anche cibarci di pietre, ma potrebbe essere pregiudicante per la nostra salute (soprattutto per i denti). Scherzi a parte, in sostanza dobbiamo mangiare per sopravvivere, però possiamo farlo nel modo più etico e coerente possibile coi nostri principi. In questo contesto si inserisce il rifiuto del consumo di prodotti di origine animale dato che essi soffrono come gli esseri umani. Le piante possiedono caratteristiche sostanzialmente differenti ed è quanto meno avventato paragonare, sotto tutti i punti di vista, una mela che viene colta dall’albero con l’uccisione di un maiale.
4. È che il vegetarianismo è elitario e borghese
Forse esiste un certo vegetarianismo elitario, ma il vegetarianismo di per sé non è né elitario, né borghese, né proletario. È l’atteggiamento della gente che è così. Come una persona carnivora può comprare tutti i giorni frutti di mare e crostacei, un vegetariano può mangiare quotidianamente tofu e seitan. In entrambe i casi, per alimentarsi in questo modo si deve avere un elevata disponibilità economica, sebbene tali alimenti siano un lusso non necessario tanto per i vegetariani quanto per i carnivori. Però, siamo realisti, generalmente non mangiamo tutti i giorni questo tipo di alimenti (alcuni non lo fanno mai).
Al confronto, è molto più economica la verdura che la carne o il pesce. I vegetariani non sono ossessionati dalle erboristerie, non passano il tempo alla ricerca di prodotti costosi (allo stesso modo, gli altri non passano le giornate nelle pescherie). Di solito, le fiere e i mercati sono la miglior fonte di alimentazione per i vegetariani, qui il costo degli alimenti è molto più basso e la qualità è di gran lunga migliore di quella della carne. Noi stessi abbiamo notato dal nostro portafoglio che essere vegetariani è più conveniente e quindi, meno elitario.
Di conseguenza, affermare che il vegetarianismo sia elitario e borghese – come se solo quelli che appartengono alle alte sfere della società potessero permettersi di esserlo – si rivela una scusa vana, atta a giustificare il consumo di carne per fingere di fronte agli altri, o di fronte a se stessi, di essere un “rivoluzionario”. Il tutto perchè non si vuole vedere che il filetto di carne, perché arrivi sul tuo piatto, deve passare per un processo molto crudele fatto di autorità, dominio e sofferenza. Ma l’egoismo ci rende ciechi, e qualsiasi scusa è buona per continuare a perpetrare quest’ingiustizia. Puoi scegliere di non mangiarlo, ma questo implica un piccolo sforzo giornaliero che forse non si è disposti a fare. Al contrario, il non sforzarsi per combattere le ingiustizie, questo si che è un comportamento borghese. O erano forse borghesi i contadini anarchici dell’inizio del secolo che si avvicinarono al vegetarianismo? Sono borghesi le teorie naturiste che vedono nel vegetarianismo una critica selvaggia al consumismo, come pure un modo di vivere semplice e naturale?...
Conclusioni
Esistono molti altri luoghi comuni e pregiudizi sul vegetarianismo, ho solo cercato di indicarne alcuni, forse i più significativi. Di solito si dice che la carne è un alimento “molto ricco” senza fermarsi a pensare che la golosità o il sapore piacevole non compensa, ma perde d’importanza, quando si viene a sapere del dolore che ha dovuto sopportare quest’essere sensibile per diventare poi un alimento “così ricco”. Esistono piatti vegetariani (privi di ogni crudeltà) che sono altrettanto ricchi. Molte cose possono avere un sapore gradevole, il cane di casa tua ben cucinato può risultare “ricco”, anche il tuo fratellino ben condito potrebbe essere altrettanto gustoso, ma di sicuro non te li mangeresti. Sebbene il paragone possa sembrare un po’ duro, dovete solo recarvi in una fattoria di allevamento per rendervi conto del fatto che lì gli animali soffrono almeno quanto soffriremmo noi nelle medesime condizioni, o a dir poco in un modo molto vicino al nostro.
Si è soliti dire che “è una cosa che viene fatta da sempre, dall’inizio dei tempi”; un’argomentazione usata spesso da gente che appartiene all’ambiente “rivoluzionario”. Anche questa è una bugia, perché le maggiori ingiustizie sociali e lavorative sono quelle perpetrate per una vita intera, che hanno provocato un enorme spargimento di sangue, mentre cambiarle non costerebbe tanto. Che qualcosa sia stato fatto tutta la vita non è sinonimo di giustizia. Per fare un esempio, la società è patriarcale praticamente da sempre e questo non vuol dire che va bene così, ma tutto il contrario.
Il dominio e la tortura animale va molto più in là della corrida dei tori (che di sicuro è un atto di terrorismo), sono nelle pelliccerie, nei negozi di animali da compagnia, nei circhi, negli zoo …; e naturalmente nel consumo vero e proprio di carne animale. È curioso protestare contro le torture sofferte dagli animali e non farsi nessun problema a mangiarli. Allo stesso modo è curioso vedere gli ecologisti di Greenpeace salvare le balene dopo essersi mangiati un salmone o protestare contro la corrida dei tori mentre si è capaci di divorare una coda di toro senza batter ciglio. Ogni forma di dominio sugli animali, dal consumo di carne alla corrida dei tori, sono i rami di uno stesso tronco specista che vede gli animali come meri oggetti al servizio dell’essere umano, così come la società patriarcale vede le donne come semplici oggetti al servizio dell’uomo.
Quando si raccontano spiritosaggini speciste sulle persone vegetariane, bisogna pensare che c’è gente che vede gli animali come qualcosa di più di un semplice oggetto al nostro servizio da torturare e uccidere in allegria, e che possono quindi non gradire tale spirito. Così come dobbiamo eliminare le spiritosaggini razziste e maciste (il che implica anche il non consentire che vengano dette), bisogna anche cercare di smetterla con quelle speciste. Così come per te un’ arrosto è un banchetto fenomenale, ci può essere gente al tuo fianco che vede solo dei cadaveri che sono stati assassinati per un consumo non necessario.
Evidentemente, la lotta per la liberazione animale non è una lotta isolata. Si trova all’interno di un’infinità di lotte che molti pensano debbano essere moderate. Sta all’interno delle lotte antiautoritarie e anticapitaliste. E pertanto, così come non intendiamo riformare il capitalismo, correggere lo stato o camuffare il patriarcato, tanto meno desideriamo che gli animali soffrano meno; vogliamo bensì che non soffrano né muoiano a causa di un consumo egoistico e non necessario; e questo non in maniera isolata, ma per contribuire alla realizzazione di un cambiamento radicale nella trasformazione sociale, ed avere così una società senza oppressori, né oppressi per questioni di etnia, sesso e anche per questioni che riguardano la specie.
Fonte: www.lahaine.org/
Link:http://www.lahaine.org/articulo.php?p=8424&more=1&c=1
4.07.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MONIA
Procedimento a catena *I maiali vengono fatti salire per una stretta rampa dove lo "storditore" dà loro una scossa elettrica che dovrebbe ridurli all'incoscienza, come richiesto dalla Humane Slaughter Act (Hsa), approvato nel 1958 ( va notato che i polli, di gran lunga gli animali d'allevamento macellati in maggior quantità, sono esplicitamente esclusi dalle prescrizioni dello Hsa.
Dopo essere stati ridotti all'incoscienza, i maiali vengono incatenati e appesi per le zampe posteriori, in modo che penzolino a testa in giù, su un nastro trasportatore che li conduce verso il "macello", il cui compito è quello di tagliar loro la gola.
Dopo esser morti per dissanguamento, i maiali vengono immersi in un serbatoio di acqua bollente ed eviscerati, senza aver mai più ripreso conoscenza. Questo è si suppone che succeda. In pratica, come dimostrato da gail Eisnitz nella sua indagine clandestina sull'industria americana della macellazione spesso le cose non vanno così...
E' frequente che i maiali finiscano nella vasca di bollitura ancora pienamente coscienti. Come affermato da un operaio: "Questa è la regola"
Tratto da: Tom Regan "Gabbie Vuote" Ed. Sonda 2005
1. Il consumo di carne come qualcosa di necessario per la salute:
Esiste la falsa credenza secondo cui il consumo di carne deve considerarsi necessario non solo per godere di buona salute, ma anche per non incappare in problemi di denutrizione. Si arriva perfino a collegare malattie come l’anoressia e l’anemia al vegetarianismo, un legame completamente sbagliato. Tutti gli elementi nutritivi, atti a condurre un dieta equilibrata e sana, sono contenuti in alimenti di origine vegetale. Il mito dell’assenza di proteine e di vitamine (tra le quali la B12) è stato abbondantemente smentito.
Di fatto, sempre più medici e nutrizionisti raccomandano la dieta vegetariana. L’OMS (Organizzazione Mondiale per la Salute) raccomanda la dieta vegetariana come la più salutare. Le statistiche dimostrano che le persone vegetariane vivono più a lungo, risultano meno dispendiose per la sanità pubblica e sono colpite da un minor numero di malattie oncologiche e cardiovascolari. Allo stesso tempo, vi sono sempre maggiori prove dirette del legame tra patologie che interessano lo stomaco, patologie cancerogene, cardiovascolari ecc. … e il consumo di carne.
Si crede anche che il vegetarianismo limiti molto la dieta di una persona, quando invece, gli alimenti di origine animale girano intorno ai 2.000 derivati e quelli di origine vegetale intorno ai 10.000. É assurdo pensare che noi vegetariani mangiamo sempre le stesse cose. Si possono preparare dei piatti deliziosi combinando legumi, cereali, ortaggi, frutta, frutta secca, ecc. … Di solito chi fa queste affermazioni segue una dieta che eccede nell’uso di carne e non riesce nemmeno ad immaginare quanto possano essere gustosi i piatti vegetariani, proprio perché non li ha mai assaggiati, non è mai andato più in là della carne.
Affermare che il vegetarianismo è sinonimo di malnutrizione o di denutrizione è un pregiudizio come molti altri prodotti dall’ignoranza e dal rifiuto della diversità, di chi sceglie un modo diverso di consumare. È un modo per isolare le minoranze, quelli che non agiscono come te, considerando a priori il consumo di carne come qualcosa di eticamente corretto. È anche un modo per auto-giustificarsi: “quello che faccio è buono”. Ma i dati e la realtà sono sempre lì e, come per molti altri aspetti della vita, solo nel mondo dei ciechi non si vuole vedere.
2. È che siamo onnivori…mangiamo carne per natura:
con questa grossa verità si vuole giustificare il fatto di contribuire, attraverso il consumo di carne, alla più selvaggia delle torture e delle morti patite dagli animali. Di certo siamo onnivori, ma che significa essere onnivori? Significa che il tuo corpo accetta ogni tipo di alimento, che non li rifiuta, ma questo non vuol dire che si è obbligati a mangiarli e che sia una cosa negativa rifiutare un determinato tipo di alimento. Insomma, non vuol dire che abbiamo bisogno di mangiare carne, ma semplicemente che in una concreta condizione evolutiva, il tuo corpo una volta ingerita non la rifiuta.
Dobbiamo però tener conto del fatto che l’essere umano, a differenza del resto degli animali, possiede un elevato grado di capacità intellettive e può scegliere cosa mangiare. Nell’attuale grado di sviluppo, dove in molti luoghi la depredazione e forme simili sono scomparse, scegliere di non mangiare carne è perfettamente compatibile col fatto di essere onnivoro.
Spesso si dice che gli animali si mangiano l’un l’altro e che noi esseri umani, come parti indissolubili di questa catena, siamo obbligati a mangiare carne in modo naturale al fine di non provocare uno “squilibrio”.
Prima di questo bisogna dire che non tutti gli animali si mangiano l’un l’altro, esiste una moltitudine di specie erbivore. Inoltre, gli animali che si mangiano tra loro non possiedono la capacità che abbiamo noi di scegliere cosa mangiare, essendo guidati più dall’istinto che dalla razionalità, cosa che noi possiamo (dobbiamo) invertire. In nessun modo si può affermare che il vegetarianismo di massa (cosa alquanto improbabile che si produca) possa provocare uno squilibrio naturale causando un “disastro ecologico”, anche perché la natura stessa possiede i suoi meccanismi di autoregolazione.
Bisogna considerare il fatto che, anche se siamo onnivori, il nostro corpo rassomiglia molto di più a quello degli erbivori che a quello dei carnivori. Scegliere di non mangiare carne non urta nessun principio naturale. Ma tutto dipende da cosa intendiamo per “naturale”. Le persone che difendono il consumo di carne perché è “naturale” si contraddicono. Naturale potrebbe essere, in ogni caso, se privi della nostra capacità di scegliere ciò che mangiamo e/o, potendo mangiare dei vegetali, ricorressimo alla caccia per non morire di fame e divorassimo un animale. Ma c’è forse qualcuno che mangia carne in un contesto come questo, nella Spagna dei giorni nostri?
Vediamo. Gli animali vengono prelevati dal loro habitat naturale e condotti in una fattoria, qui vengono fatti ingrassare in modo artificiale attraverso prodotti chimici e ormoni, vengono ammassati uno sull’altro e torturati. Attraverso potenti fonti luminose, a cui vengono sottoposti nel corso delle 24 ore, si provoca in loro uno stato in cui non riescono più a distinguere il giorno dalla notte, condizione che li porta ad ingrassare di più. Dopo di che vengono uccisi secondo un procedimento a catena* brutale e sanguinoso, facendo uso di macchine che provocano in loro una sofferenza atroce. È forse questo il processo naturale di cui parlano quelli che difendono il consumo di carne?
Con ciò non vogliamo dire che se gli animali stessero in migliori condizioni di vita-morte difenderemmo il consumo della carne. Siamo contro qualsiasi spargimento di sangue animale non necessario al consumo umano, poiché per mangiare un animale devi ucciderlo (con più o meno sofferenza) e se questo può essere evitato, di certo è molto meglio farlo. Ma nella società capitalista l’ambizione affaristica al guadagno, ammassa e tortura gli animali in queste condizioni, portandoli verso una morte selvaggia con metodi non proprio naturali.
È chiaro, che ci sono molti modi di intendere ciò che è “naturale”. Per la chiesa è innaturale usare un profilattico o essere omosessuale, perché essa crede che l’indole naturale di ogni essere umano sia la procreazione; allo stesso modo per gli esseri viventi è naturale mangiare carne, anche se per farlo si impiegano i metodi più innaturali possibili, anche se sulla loro stessa vita gravano principi innaturali, ecc…. Curiosamente, il fatto di mangiare carne viene difeso sulla base del principio di ciò che è “naturale” e sono “contro natura” quanti credono che la tortura e il dominio dell’animale siano evitabili in qualunque forma, come qualcosa di ingiusto e innaturale; dall’altra parte, è più che ragionevole che gli esseri sensibili non patiscano dolore. Difendere il consumo di carne come qualcosa di naturale significa difendere la tortura e la morte non necessaria come qualcosa di “naturale”.
3. Le piante sono esseri viventi, anche loro soffrono:
È certo che le piante sono esseri viventi. Ed è certo che noi vegetariani le mangiamo. Per di più, se qualcuno che mangia solo carne dicesse che “lui rispetta le piante” direbbe una grossa fesseria, poiché gli animali mangiano per lo più piante e lui non fa che mangiare l’animale che si è mangiato queste piante, nutrendo così con esse il suo corpo. In fin dei conti tutti mangiamo piante però…Soffrono? Finora, nessuna indagine è riuscita a dimostrare che sia così, esse possono apprezzare moltissime più cose di quanto crediamo ma la sofferenza e il dolore, allo stesso modo in cui lo patiamo noi animali (umani e non), non le riguarda. Le piante non possiedono né un sistema nervoso né cellule sensitive del dolore, perciò è abbastanza improbabile che soffrano. E se provano qualcosa questo non può essere comparato né qualitativamente né quantitativamente con la sofferenza degli animali.
Detto questo conviene ricordare che dobbiamo mangiare per sopravvivere, possiamo anche cibarci di pietre, ma potrebbe essere pregiudicante per la nostra salute (soprattutto per i denti). Scherzi a parte, in sostanza dobbiamo mangiare per sopravvivere, però possiamo farlo nel modo più etico e coerente possibile coi nostri principi. In questo contesto si inserisce il rifiuto del consumo di prodotti di origine animale dato che essi soffrono come gli esseri umani. Le piante possiedono caratteristiche sostanzialmente differenti ed è quanto meno avventato paragonare, sotto tutti i punti di vista, una mela che viene colta dall’albero con l’uccisione di un maiale.
4. È che il vegetarianismo è elitario e borghese
Forse esiste un certo vegetarianismo elitario, ma il vegetarianismo di per sé non è né elitario, né borghese, né proletario. È l’atteggiamento della gente che è così. Come una persona carnivora può comprare tutti i giorni frutti di mare e crostacei, un vegetariano può mangiare quotidianamente tofu e seitan. In entrambe i casi, per alimentarsi in questo modo si deve avere un elevata disponibilità economica, sebbene tali alimenti siano un lusso non necessario tanto per i vegetariani quanto per i carnivori. Però, siamo realisti, generalmente non mangiamo tutti i giorni questo tipo di alimenti (alcuni non lo fanno mai).
Al confronto, è molto più economica la verdura che la carne o il pesce. I vegetariani non sono ossessionati dalle erboristerie, non passano il tempo alla ricerca di prodotti costosi (allo stesso modo, gli altri non passano le giornate nelle pescherie). Di solito, le fiere e i mercati sono la miglior fonte di alimentazione per i vegetariani, qui il costo degli alimenti è molto più basso e la qualità è di gran lunga migliore di quella della carne. Noi stessi abbiamo notato dal nostro portafoglio che essere vegetariani è più conveniente e quindi, meno elitario.
Di conseguenza, affermare che il vegetarianismo sia elitario e borghese – come se solo quelli che appartengono alle alte sfere della società potessero permettersi di esserlo – si rivela una scusa vana, atta a giustificare il consumo di carne per fingere di fronte agli altri, o di fronte a se stessi, di essere un “rivoluzionario”. Il tutto perchè non si vuole vedere che il filetto di carne, perché arrivi sul tuo piatto, deve passare per un processo molto crudele fatto di autorità, dominio e sofferenza. Ma l’egoismo ci rende ciechi, e qualsiasi scusa è buona per continuare a perpetrare quest’ingiustizia. Puoi scegliere di non mangiarlo, ma questo implica un piccolo sforzo giornaliero che forse non si è disposti a fare. Al contrario, il non sforzarsi per combattere le ingiustizie, questo si che è un comportamento borghese. O erano forse borghesi i contadini anarchici dell’inizio del secolo che si avvicinarono al vegetarianismo? Sono borghesi le teorie naturiste che vedono nel vegetarianismo una critica selvaggia al consumismo, come pure un modo di vivere semplice e naturale?...
Conclusioni
Esistono molti altri luoghi comuni e pregiudizi sul vegetarianismo, ho solo cercato di indicarne alcuni, forse i più significativi. Di solito si dice che la carne è un alimento “molto ricco” senza fermarsi a pensare che la golosità o il sapore piacevole non compensa, ma perde d’importanza, quando si viene a sapere del dolore che ha dovuto sopportare quest’essere sensibile per diventare poi un alimento “così ricco”. Esistono piatti vegetariani (privi di ogni crudeltà) che sono altrettanto ricchi. Molte cose possono avere un sapore gradevole, il cane di casa tua ben cucinato può risultare “ricco”, anche il tuo fratellino ben condito potrebbe essere altrettanto gustoso, ma di sicuro non te li mangeresti. Sebbene il paragone possa sembrare un po’ duro, dovete solo recarvi in una fattoria di allevamento per rendervi conto del fatto che lì gli animali soffrono almeno quanto soffriremmo noi nelle medesime condizioni, o a dir poco in un modo molto vicino al nostro.
Si è soliti dire che “è una cosa che viene fatta da sempre, dall’inizio dei tempi”; un’argomentazione usata spesso da gente che appartiene all’ambiente “rivoluzionario”. Anche questa è una bugia, perché le maggiori ingiustizie sociali e lavorative sono quelle perpetrate per una vita intera, che hanno provocato un enorme spargimento di sangue, mentre cambiarle non costerebbe tanto. Che qualcosa sia stato fatto tutta la vita non è sinonimo di giustizia. Per fare un esempio, la società è patriarcale praticamente da sempre e questo non vuol dire che va bene così, ma tutto il contrario.
Il dominio e la tortura animale va molto più in là della corrida dei tori (che di sicuro è un atto di terrorismo), sono nelle pelliccerie, nei negozi di animali da compagnia, nei circhi, negli zoo …; e naturalmente nel consumo vero e proprio di carne animale. È curioso protestare contro le torture sofferte dagli animali e non farsi nessun problema a mangiarli. Allo stesso modo è curioso vedere gli ecologisti di Greenpeace salvare le balene dopo essersi mangiati un salmone o protestare contro la corrida dei tori mentre si è capaci di divorare una coda di toro senza batter ciglio. Ogni forma di dominio sugli animali, dal consumo di carne alla corrida dei tori, sono i rami di uno stesso tronco specista che vede gli animali come meri oggetti al servizio dell’essere umano, così come la società patriarcale vede le donne come semplici oggetti al servizio dell’uomo.
Quando si raccontano spiritosaggini speciste sulle persone vegetariane, bisogna pensare che c’è gente che vede gli animali come qualcosa di più di un semplice oggetto al nostro servizio da torturare e uccidere in allegria, e che possono quindi non gradire tale spirito. Così come dobbiamo eliminare le spiritosaggini razziste e maciste (il che implica anche il non consentire che vengano dette), bisogna anche cercare di smetterla con quelle speciste. Così come per te un’ arrosto è un banchetto fenomenale, ci può essere gente al tuo fianco che vede solo dei cadaveri che sono stati assassinati per un consumo non necessario.
Evidentemente, la lotta per la liberazione animale non è una lotta isolata. Si trova all’interno di un’infinità di lotte che molti pensano debbano essere moderate. Sta all’interno delle lotte antiautoritarie e anticapitaliste. E pertanto, così come non intendiamo riformare il capitalismo, correggere lo stato o camuffare il patriarcato, tanto meno desideriamo che gli animali soffrano meno; vogliamo bensì che non soffrano né muoiano a causa di un consumo egoistico e non necessario; e questo non in maniera isolata, ma per contribuire alla realizzazione di un cambiamento radicale nella trasformazione sociale, ed avere così una società senza oppressori, né oppressi per questioni di etnia, sesso e anche per questioni che riguardano la specie.
Fonte: www.lahaine.org/
Link:http://www.lahaine.org/articulo.php?p=8424&more=1&c=1
4.07.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MONIA
Procedimento a catena *I maiali vengono fatti salire per una stretta rampa dove lo "storditore" dà loro una scossa elettrica che dovrebbe ridurli all'incoscienza, come richiesto dalla Humane Slaughter Act (Hsa), approvato nel 1958 ( va notato che i polli, di gran lunga gli animali d'allevamento macellati in maggior quantità, sono esplicitamente esclusi dalle prescrizioni dello Hsa.
Dopo essere stati ridotti all'incoscienza, i maiali vengono incatenati e appesi per le zampe posteriori, in modo che penzolino a testa in giù, su un nastro trasportatore che li conduce verso il "macello", il cui compito è quello di tagliar loro la gola.
Dopo esser morti per dissanguamento, i maiali vengono immersi in un serbatoio di acqua bollente ed eviscerati, senza aver mai più ripreso conoscenza. Questo è si suppone che succeda. In pratica, come dimostrato da gail Eisnitz nella sua indagine clandestina sull'industria americana della macellazione spesso le cose non vanno così...
E' frequente che i maiali finiscano nella vasca di bollitura ancora pienamente coscienti. Come affermato da un operaio: "Questa è la regola"
Tratto da: Tom Regan "Gabbie Vuote" Ed. Sonda 2005
martedì 3 novembre 2009
Spazio all'ornitornico fuori da "ornitorinco".
Iscriviti a:
Post (Atom)