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martedì 10 maggio 2011

Allora.



In merito alle mail ricevute, e ai commenti. Il blog rimarrà chiuso. Sto lavorando al nuovo libro, in Autunno dovrebbe riuscire a comparire negli scaffali impolverati delle librerie. Che libro è? Un romanzo, breve. Brevissimo. Quando uscirà, riaprirà anche il blog. Forse anche altre cose, compreso un nuovo pezzo per Liberazioni di cui vado dannatamente orgoglioso. AH: il blog a riaprire sarà questo.

giovedì 21 aprile 2011

Mary Mary solitary ...

Nuovo sito. E il blog? Non so se continua. Vediamo. La voglia di postare si è affievolita, poi è svanita. Lui starà qui, ad aspettare che torni ...


mercoledì 20 aprile 2011

Una recensione, su Notizie Radicali

Francesco Pullia
Soltanto per loro, un libro di Caffo per farla finita con lo sfruttamento animale

20-04-2011

Lo sfruttamento animale, diretta e inevitabile conseguenza dello specismo, non è affatto un’ulteriore forma di oppressione in aggiunta alle altre già conosciute, ma il fondamento stesso, come già acutamente sottolineato da Horkheimer e Adorno, di ogni pratica di sterminio di massa. E’ venuto il momento di averne piena consapevolezza e di smantellarne i presupposti se davvero si vuole costruire una società nonviolenta. Con il pretesto alimentare e con quello pseudoscientifico (vivisezione, sperimentazione animale), ma non solo, siamo quotidianamente complici di un sistema di riduzione, espulsione e annientamento dell’altro.

Sulla base di questo atteggiamento totalizzante abbiamo piegato e conformato lo stesso diritto a nostro uso e consumo, estendendo ovunque l’assoggettamento sistematico e la manipolazione dei corpi come segno di dominio, soggiogando, criminalizzando, fagocitando (in senso letterale) quanto, secondo una visione arrogantemente antropocentrica e cartesiana, si pone al di là della cesura ontologica unilateralmente decisa dall’uomo.

In questa direzione, il diritto viene ad essere la sfera in cui si sanciscono e codificano arbitrio e pregiudizio e si impone la violenza strutturale che espelle, espunge, dal contesto generale la diversità animale, paradigma per antonomasia di ogni altra differenza. Da questo stato delle cose presenti, per usare una terminologia marxiana, si può uscire tramite l’assunzione di un pensiero che restituisca agli altri esseri ciò che spetta loro ontologicamente.


Alla reintegrazione delle altre specie nel pensiero del mondo è dedicato “Soltanto per loro, un manifesto per l’animalità attraverso la politica e la filosofia” (Aracne editrice, 2011) di Leonardo Caffo, studioso che si ricollega a quella corrente filosofica che, nata con l’intento di approfondire problematiche antispeciste, sta arricchendo, con echi provenienti dalla critica francofortese e dal poststrutturalismo, quanto introdotto negli anni settanta da Peter Singer e Tom Regan.

Due punti ci sembrano particolarmente meritevoli d’attenzione nell’analisi di Caffo:
1)in una prospettiva di ripensamento e ricostruzione del sociale, l’animalismo è l’“universalizzante del diritto” (le differenze tra i viventi non possono assolutamente giustificare lo sfruttamento programmatico e perentorio degli altri animali da parte dell’uomo) e
2) l’obiettivo finale dev’essere una società liberata da ogni forma di oppressione.

Perché ciò possa effettivamente verificarsi occorre una “kehre”, una svolta radicale nel nostro modo di rapportarci all’altro che parta dal presupposto della vulnerabilità, della mortalità che, senza alcuna differenza, ci accomuna tra esseri senzienti e che, come giustamente ha ravvisato Derrida, rappresenta la possibilità “meno propria” dell’esistente, anzi la più impropria ed “espropriante”: “è la morte stessa”, annota Caffo, a renderci infatti “infinitamente collegati con l’animalità ed è un passaggio necessario alla costituzione di quella filosofia che deve fare da sfondo all’animalismo”.

Di qui la necessità di ripensare l’umano “in un mondo che non appartiene all’umano”, di dirigerci “verso un orizzonte oltreumano” facendo tesoro, ad esempio, della fecondità del “divenire-animale” su cui si è soffermato Gilles Deleuze in polemica con il fallo(antropo)logocentrismo (si noti bene che Derrida, in altri modi, ha serratamente criticato il sistema carnologofallocentrico).

Se Deleuze ci ha invitato a decolonizzare il soggetto pensante dal dominio dualistico, a perorare la dissoluzione di ogni sorta di identità basata sulla opposizione di genere, Caffo, da parte sua, ci suggerisce “una riflessione sugli animali che provi a mettersi nei loro panni”, che presti loro l’ascolto dovuto, restituisca voce alle vite offese, sia, per citare Matthew Calarco, attenta “alle modalità specifiche con cui gli animali si oppongono all’assoggettamento e alla dominazione”.

Detto altrimenti, si tratta di “guardare il mondo con gli occhi dell’altro e l’altro con i nostri”.
Non resta, dunque, che incontrare l’altro riscattandolo dai lager, dai luoghi dello sterminio e dello smembramento, come il mattatoio da cui il soggetto esce fatto a pezzi. I maiali, ad esempio, annota in questo senso Caffo, “vengono smantellati simbolicamente e materialmente e ricomposti, in vari modi e sotto falsi nomi (“pancetta”, “salame”, “mortadella”, ecc.) nelle nostre tavole e nei vari dispositivi di dominio delle nostre società. L’animale scompare come sostanza vivente e ricompare come artificio dell’uomo”.

Lo stesso Slow Food non si sottrae a questa “ideologia dello sterminio” contrabbandando per “carne felice” quanto viene ottenuto da un’ennesima uccisione. Anzi, per dirla tutta, è un’operazione ancora più ipocrita mirante solo, tramite una pseudo trasparenza, a “depurare”, a rendere “più pulite”, le coscienze dei consumatori.

Il felice massacro degli animali”, scrive Caffo, “la carne che viene da un morto contento, non è solo un modo per tacitare le coscienze facendo pensare che in fondo mangiare animali non comporta le nefandezze a tutti note degli allevamenti intensivi, ma diventa anche un modo per reintrodurre la morte, l’uccisione degli animali nel quotidiano, o per reintrodurre il rapporto diretto con lo sfruttamento degli animali”. In realtà, con lo Slow Food, con il “biologico”, si finisce per avallare ancora una volta la capacità umana di sgozzare e trucidare senza troppi scrupoli etici. L’ideologia della carne biologica e sostenibile serve a trasformare pretestuosamente pareti di cemento in pareti di vetro a spacciare per “serena” la fine dell’animale.

Anche l’ambientalismo e la cosiddetta “ecologia profonda” non possono sottrarsi a queste critiche, essendo sempre aspetti dello specismo antropocentrico. Che fare, dunque? Decostruire (l’umanesimo) e ricostruire (una nuova filosofia della vita), accomiatarsi dalla violenza rimarginando secoli di ferite, scarti, cesure tramite l’affermazione della compresenza, sostituire al pensiero del dominio quello della compassione. Ha ragione Derrida a sostenere che è in corso “una guerra della pietà”, una lotta che va combattuta mettendo in gioco il nostro cuore.


Fonte: qui.

venerdì 1 aprile 2011

Maurizi su auto produzione e allevamenti tradizionali.

Marco Maurizi

Antispecismo, allevamento “tradizionale” e auto-produzione

Note per un dibattito che non manchi l’essenziale

Così vicini, così lontani

Il fatto che l’antispecismo non trovi di meglio da fare che polemizzare con le posizioni di chi “ama” e “rispetta” la natura pur continuando ad uccidere animali, può sembrare una bizzarria dovuta a quel classico eccesso di estremismo o settarismo che porta a criticare chi ti sta più vicino (l’ambientalismo radicale, gli alfieri del mondo contadino premoderno, i teorici dell’auto-produzione) piuttosto che unire le forze per combattere il vero nemico: il capitalismo globale tecno-finanziario. Ma il problema è che questa “vicinanza” è, probabilmente, illusoria e che non è possibile alcuna forma di convergenza tra posizioni diverse se prima non si è fatta necessaria chiarezza sulla natura di questa diversità. D’altronde, perché una qualsiasi forma di chiarezza possa realizzarsi su questo punto, sarebbe necessario riuscire a discutere nel merito delle rispettive posizioni, cosa che, come potrà testimoniare chiunque abbia assistito a confronti tra gli antispecisti e gli “amanti della natura”, accade di rado, per non dire mai.

Quello che vorrei fare in questo intervento è chiarire alcuni presupposti di questo mancato dialogo, allo scopo di renderlo finalmente possibile. Poiché intervengo come antispecista, è chiaro che tenterò di evidenziare quali sono gli aspetti della posizione antispecista che mi sembrano solitamente offuscati o non adeguatamente presi in considerazione in questo tipo di dibattiti. In secondo luogo, tenterò di chiarire quelli che mi sembrano i principali problemi che, da un punto di vista antispecista, emergono dalle posizioni dell’ambientalismo più radicale.


Riflettere sull’ossessione identitaria


È facile osservare, nelle discussioni che hanno ad oggetto il nostro rapporto con il non-umano, come la discussione degeneri facilmente in una lotta tra “vegani” e “non-vegani”. Si dirà: è inevitabile che accada così, basta solo evitare che il confronto diventi scontro tra identità irriducibili. Sembra inevitabile, infatti, che in ogni discussione in cui si scontrano tesi opposte attorno a cui si polarizzano opinioni e gruppi diversi, si inizi a parlare di “noi” e “voi”, cioè di “identità” fisse e rigide. Ma questo, nel caso specifico della disputa sul nostro rapporto con la natura in generale e con gli animali in particolare, è un fenomeno che andrebbe evitato perché impedisce strutturalmente di cogliere il vero oggetto del dibattito. Non si tratta solo di un problema di comunicazione (cioè di “come” si dicono le cose), ma del fatto che non si riesce a intendersi su ciò di cui si parla (dunque di “cosa” si sta parlando). In altri termini, la discussione non solo non va avanti, ma nemmeno inizia. O meglio, inizia un “dialogo” tra chi parla di A e chi parla di B, mentre entrambi sono convinti di parlare di C.

Anche per questo gli appelli ad andare oltre lo stallo comunicativo sono inefficaci e, in realtà, illusori. Certo, è necessario fare uno sforzo collettivo in questo senso per facilitare la comunicazione, ma le esortazioni a non scadere nella mera contrapposizione tra “noi” e “voi” non potranno avere successo se prima non si coglie la posizione di partenza di queste due tesi che non sono affatto simmetriche. Non ci troviamo, in questo dibattito, di fronte ad un’opposizione tra due identità. Perché soprattutto quelli che a prima vista sembrano possedere un’identità più netta e rigida – i vegani – sono proprio coloro che non dovrebbero mai permettersi di affrontare la discussione in questo modo. E non per “educazione” o per “facilitare” la comunicazione, ma perché non ne hanno il diritto. Per due motivi.

In primo luogo, perché presentandosi come “vegano” l’interlocutore antispecista rischia di far travisare completamente la sua posizione nella discussione. Chi è infatti il “vegano”? È una persona che “non mangia carne” e che spera o intima a terzi di essere come lui, cioè di adeguarsi alla sua identità cioè al suo modo di vivere? No, non è questo e, se fosse questo, avrebbero ragione coloro che gli si oppongono a trovare poco significativa la sua posizione e le sue opinioni. Il veganismo è infatti una pratica e, in quanto tale, non è il punto di partenza, la tesi che andrebbe discussa. È, al limite, il punto di arrivo della vera tesi che si tratta di discutere: ovvero la plausibilità etica e politica della liberazione animale. Il che significa: è possibile, auspicabile o necessario, in termini etici e politici, sottrarre gli animali non umani al giogo del potere umano, allo sfruttamento di cui sono fatti oggetto (meglio: attraverso cui sono resi “oggetti”), al dolore, alla morte? Questa è la domanda che i vegani pongono quando si parla del nostro rapporto con i non-umani. E la pongono non in quanto vegani (cioè portatori di uno stile di vita) ma in quantoantispecisti (cioè sostenitori di una visione etico-politica). Dunque sarebbe meglio che ad oggetto della discussione stesse l’antispecismo e non il veganismo[1].

In secondo luogo, e forse anche più importante, chi critica lo specismo non può dimenticare nemmeno per un momento che il suo compito nella discussione non è semplicemente affermare una tesi, ma fermare la mano che uccide delle vite: chi lotta per la liberazione animale cerca infatti di dare voce alle vittime impotenti di una sottomissione millenaria. Dietro di lui ci sono altre vite che, se potessero scegliere, sicuramente non accetterebbero il proprio destino di morte. Qual è allora “l’identità” dell’antispecista che parla nel dibattito? Quella di un umano o anche quella dei non-umani che egli spera di sottrarre al potere della società del dominio?

Questo non diminuisce la sua responsabilità nella discussione ma, anzi, la moltiplica, nel senso che egli deve mostrarsi responsabile nel far presente questo fatto (cosa di cui, occorre ammetterlo, raramente i vegani sono all’altezza). L’antispecista non deve, cioè, abusare della voce di cui è testimone, ma è importante che riesca a far emergere nella discussione che la sua posizione non è “sua”. Perché solo in questo modo può dire senza peccare di narcisismo morale: prendiamoci le nostre responsabililtà, discutiamo di ciò che siamo e, se possibile, cambiamo. Se questo aspetto non emerge e non viene messo al centro del dibattito allora effettivamente tutto diventa solo uno scontro tra “identità” umane contrapposte che non solo silenzierà, di nuovo, quelle voci animali inascoltate, ma che non potrà che avere gli esiti disastrosi che ben conosciamo. Se i vegani agiscono come portatori di uno “stile di vita” invece che come testimoni di una voce oppressa, mancano tragicamente il bersaglio e contribuiscono a rendere impossibile ogni discussione vera. Perché allora l’interlocutore vedrà in loro solo persone che cercano di affermare il proprio ego e il dolore che gonfia le loro voci apparirà inevitabilmente un urlo di prevaricazione.

D’altro canto, e anche questo va detto, se gli interlocutori dei vegani impostano la discussione ad un livello “immediato”, “pratico”, è inevitabile che si finisca per parlare di “stili di vita”. Se il problema dell’oppressione animale, della sua giustificabilità e necessità, viene affrontato non in sé ma per il modo in cui oggi gli stili di vita incidono sull’ambiente, si è già affossata la discussione. Quando si critica la produzione di soia o di riso per mostrare che anch’essa è violenta, si commette una scorrettezza. Si aggira la domanda sull’oppressione animale (“è giustificata?”) e si sposta automaticamente la discussione sugli “stili di vita” e sui loro “effetti” più o meno violenti. In questo modo, ci si sottrae ad una domanda di diritto con una constatazione di fatto: tu vegano non sei meno violento di me non-vegano. Tutti ugualmente colpevoli, tutti assolti. A parte le riserve che ho su questi “fatti” che vengono sbandierati come certezze assolute – e su cui dirò qualcosa alla fine di questo intervento – mi sembra chiaro che, così facendo, si elude ogni confronto nel merito. Si parla solo di ciò che interessa chi accetta l’oppressione animale (lo “stile di vita”) e non se l’oppressione sia in sé giusta.

Centrare i problemi politici


La questione, per come la vedo, andrebbe impostata in termini politici, cioè parlando del
tipo di mondo per cui lottiamo. Quando si lotta contro il capitalismo globalizzato e contro tutte le forme di oppressione disegniamo infatti un mondo che ancora non c’è. Ora, rispetto a questa dinamica di liberazione c’è un problema sia con chi insegue l’ideale contadino tradizionale, sia con chi pratica l’autoproduzione.

1. I limiti della tradizione


In primo luogo, non è affatto chiaro perché il mondo agricolo “pre-moderno” dovrebbe essere considerato un ideale rispetto al mondo tecnologico contemporaneo. Infatti se si prende questo mondo così com’era, allora lo si dovrebbe restaurare con tutte le caratteristiche che esso possedeva (incluso il patriarcato, la gerontocrazia, il razzismo ecc.); senza dimenticare che lo sviluppo “tecnologico” esiste dall’alba dei tempi, dunque non è ben chiaro a quale fase di questo sviluppo bisognerebbe arrestarsi: a livello del 1500, cioè poco prima della modernità? E perché non all’anno 1000 o al neolitico? Chi, e come, stabilisce qual è il modello “ideale” di produzione?

Se poi si dice, come ovviamente si dice, che no, questo modello ci va bene per alcuni aspetti (il rispetto della natura), ma non per altri (la violenza interumana) allora scatta davvero la domanda: perché tutto dovrebbe cambiare tranne che l’uccisione di animali? La storia di ribellione cui facciamo parte è una storia che ha visto mettere in discussione progressivamente lo schiavismo e l’oppressione di genere. Ogni volta si giustificava questa oppressione nei modi più diversi, salvo poi dover ammettere che gli “inferiori” erano tali solo perché la violenza li rendeva tali. Per quale motivo gli animali - che fanno parte di questa storia al pari delle donne, degli schiavi e dei bambini - non dovrebbero vedersi riconosciuto il diritto alla libertà? Perché devono continuare a dipendere dalla nostra volontà e vivere solo per i nostri interessi? È questa la domanda fondamentale che gli antispecisti rivolgono ai loro interlocutori: cosa giustifica questo trattamento degli animali? L’unica risposta possibile, bisogna avere l’onestà di riconscerlo, è: la violenza. Poiché noipossiamo fare questo agli animali, lo facciamo. Non c’è altra giustificazione. È la stessa giustificazione che stava dietro alla violenza esercitata contro gli oppressi umani: possiamo opprimerli e lo facciamo. Tutte le argomentazioni che si possono trovare a posteriori per rendere “giusto” questo rapporto di sfruttamento sono delle razionalizzazioni. L’oppressione e la violenza vengono prima. E non sono cancellate dal trovare un appiglio che le giustifichi.

C’è uno squilibrio di forze in campo e questo rende possibile a noi di vivere sulle spalle degli altri animali. Abbiamo la forza per farlo, siamo la maggioranza a ritenere di volerlo fare, dunque lo facciamo. Se si arrivasse ad ammettere questo saremmo ad un punto del dibattito in cui si potrebbe parlare senza cattiva coscienza e con definitiva chiarezza. Ma allora sarebbe inevitabile anche dire, a chi pensa che uccidere animali sia giustificato perché lo vogliamo e abbiamo la forza per farlo, che chiunque potrebbe a suo piacimento escludere un essere umano dal cerchio della considerazione morale. Basta volerlo e avere la forza per farlo. E non c’è giustificazione “morale” che tenga perché la morale ha escluso esseri umani per millenni dal suo ambito e ha fornito ottime giustificazioni (cioè razionalizzazioni) di ciò. Ma la stessa riflessione morale che ha messo in crisi questi pregiudizi ha anche dimostrato che non esistono “ragioni” morali per escludere gli animali dall’etica. Sono esseri senzienti, comunicano, vivono e interagiscono con noi e tanto più interagiscono con noi quanto più noi li consideriamo degni di attenzione. Allora l’unica giustificazione per escluderli dalla considerazione etica resta la violenza: li escludiamo perché non vogliamo considerarli degni di attenzione morale. E se questa è la giustificazione, allora chiunque può escludere esseri senzienti (anche umani) dall’ambito della morale: basta volerlo e poterlo fare. Credo che questo sia il cuore della critica antispecista alla società tradizionale e mi sembra un punto difficilmente aggirabile.


2. L’auto-produzione e il mondo che non c’è


Per quanto riguarda invece l’auto-produzione, ho l’impressione che anche qui il dibattito sia schiacciato troppo sull’attualità e sullo “stile di vita”. Si afferma: il vostro stile di vita vegan
comporta l’uccisione di vite non-umane (e lo sfruttamento di vite umane) che sarebbe in parte evitata da uno stile di vita non cittadino, anche non vegan, purché legato quanto più possibile all’auto-produzione.

Anche in questo caso si scambia la discussione sul veganismo con la discussione sull’antispecismo. È vero, il veganismo è il modo in cui singoli individui cercano di mettere in pratica l’antispecismo qui e ora, cioè in una società specista. Ma l’antispecismo è qualcosa di più di questo: è una visione generale dei rapporti tra umani e tra questi ultimi e le altre specie. È una visione sociale e politica complessiva. Dunque discutere questa visione a partire dall’impatto ambientale che lo stile di vita degli individui vegan comporta è totalmente errato. In tal modo, si confonde infatti la discussione di un ideale etico-politico (cioè, di nuovo, una discussione di diritto e di giustizia) con l’analisi dei presunti effetti che lo stile di vita vegan ha nel mondo attuale (cioè si sposta il discorso sul piano fattuale). Non solo. Oltre all’errore logico di eludere l’argomento che l’antispecista pone ad oggetto della discussione (“è giustificato uccidere animali?”), si aggiunge qui l’errore fattuale di considerare il mondo-com’è-oggi l’orizzonte di ogni possibile organizzazione della vita umana e non-umana. Nessuno tuttavia conosce le potenzialità di un mondo liberato. Ci sono troppe variabili incognite per poter dire quali sono i costi e gli effetti della liberazione animale. Le terre disponibili, la popolazione, per citarne solo due, sono fattori che non si possono calcolare in anticipo.

Il primo fattore non potrà essere preso adeguatamente in considerazione se non si pensa, al tempo stesso, l’espropriazione delle terre occupate dal capitale che è il presupposto di ogni azione di liberazione successiva (sia la sua equa distribuzione tra gli umani che la sua restituzione al resto del vivente). Ma anche la seconda variabile va considerata con attenzione. Non sta scritto da nessuna parte che un’umanità liberata voglia espandersi o anche solo mantenersi a livello attuale e non possa invece volontariamente o automaticamente realizzare una politica demografica inversa. Parliamo di fenomeni che sono lasciati alla decisione libera di un’umanità libera e che viaggiano tra le generazioni e che quindi non ha proprio senso definire in anticipo.

Ma allora, a maggior ragione, i nostri calcoli sull’attualità sono già sballati. Non si può misurare il futuro con i criteri del presente. L’auto-produzione è sicuramente un modello da seguire e ove possibile praticare nell’immediato, ma non può considerarsi (nei modi in cui è praticata ora) il necessario modello cui tutti dovranno in futuro adeguarsi.

C’è anche un terzo fattore che non viene minimamente citato nelle discussioni e che invece considero centrale: il ruolo che la scienza e la tecnica possono svolgere in un mondo liberato. So bene che molti considerano (giustamente) la scienza e la tecnica uno dei fattori distruttivi del mondo moderno. Ma si sorvola troppo spesso sul fatto che ciò è vero soprattutto perché scienza e tecnica lavorano al servizio del profitto e delle classi dominanti. Non è affatto necessario che sia così.[2] Cosa potrebbero fare uomini liberi e uguali che affrontano problemi discutendo razionalmente e senza dover difendere né il proprio interesse personale, nè quello della propria specie ma invece l’interesse di una collettività inter-specifica? Non lo sappiamo. Sappiamo però che oggi una società irrazionale e conflittuale come la nostra è in grado di vincere la forza di gravità e tenere in scacco l’antimateria. Mi riesce difficile credere che una società razionale e fondata sulla mutua solidarietà non possa produrre riso in modo non-violento. Ma potrei sbagliarmi. Quello che mi sembra importante e vorrei ribadire, è che le stesse possibilità tecniche di una società a venire non possono essere calcolate in anticipo e, dunque, andrebbe evitato come argomento di dibattito ogni necessità legata all’attuale condizione tecnica. O meglio, è giusto riconoscere ciò che oggi siamo costretti a fare visti i fattori sopra indicati (disponibilità della terra, popolazione, scienza e tecnica), ma non è lecito proiettare questi fattori nel futuro perché il loro rapporto e il loro peso specifico non sono predeterminabili.

E dunque ciò che deve apparire in primo piano non è tanto quello che oggi possiamo fare, ma quello che oggi vogliamo fare e che forse potremmo fare domani. E la domanda ritorna ad essere quella di prima: in un tale mondo si continuerà a voler dominare e uccidere altri esseri senzienti? Oppure parliamo di un mondo in cui questa volontà non c’è più e in cui si tenterà perciò, quanto più possibile, di avvicinarci a questo ideale di non-violenza e di rispetto dell’altro?

Cosa significa dire “non sono antispecista”?

Per concludere, sarebbe necessario allora intendersi su qual è il vero argomento di cui si dibatte quando si parla di natura. È lecito e necessario (pur con tutti i limiti indicati) parlare di “impatto ambientale” e dei limiti del sistema attuale che rendono (oggi) inevitabile una certa violenza che esercitiamo sul resto del vivente. Nessun vegan potrà fare a meno di considerare il proprio ruolo all’interno di una società complessa e accontentarsi delle proprie scelte individuali, lavandosi così la coscienza, dimenticando che si tratta in primo luogo di cambiare questa società.

Ma è altrettanto necessario, e aggiungerei, doveroso, per chi critica questo atteggiamento, considerare veramente e nel merito l’istanza etica e politica che l’antispecismo porta avanti. Tale istanza chiede la liberazione animale come conseguenza di un percorso storico che ha portato al riconoscimento progressivo del diritto alla libertà e all’autonomia di altri-da-noi (etnie, donne, bambini). Se coloro che si oppongono all’antispecismo condividono, come accade, questo percorso nel suo insieme, devono spiegare perché intendono interromperlo proprio quando esso, introducendo le voci di altri altri-da-noi (gli animali non umani), inizia a mettere in discussione il loro “stile di vita”. Finché non verrà mostrata una motivazione morale che possa rendere giusta questa presa di posizione – e finora non ne è stata prodotta nessuna: si sono sempre portati avanti argomenti fattuali (l’impatto ambientale ecc.) – gli antispecisti avranno tutto il diritto di interpretare questa ostinazione come difesa di un privilegio.

Questo rende le posizioni nella discussione asimmetriche. Nemmeno per gli “antispecisti” si può dire – come abbiamo detto all’inizio dei vegani – che sono un gruppo a difesa di se stesso, che si arrocca dietro un’identità: essi non hanno privilegi da proteggere. Vogliono solo che la voce delle vittime animali venga ascoltata. Possono sbagliare, anzi sicuramente lo fanno, soprattutto quando dimenticano questa loro natura di testimoni di una sofferenza altrui e si chiudono nella comoda difesa di un’etichetta e di uno stile di vita. Ma ciò non autorizza i loro interlocutori ad approfittarne e a cambiare discorso quando il discorso si fa fastidioso perché li richiama alle loro responsabilità etiche e politiche. Perché chi dichiara di “essere antispecista”, se è persona coerente e informata, dichiara la propria appartenenza ad un mondo che non c’è. Dichiara di essere disposto a fare tutto il possibile perché quel mondo si realizzi, perché la giustizia e la libertà abbiano la massima diffusione possibile. Chi invece dichiara di “non essere antispecista” non sta dicendo nulla, perché nessuno può fino in fondo essere antispecista in un mondo come il nostro che vive, di fatto, sullo sfruttamento degli umani e dei non-umani. Si può però volerlo fino in fondo, cioè voler agire fin da ora perché un mondo senza dominio si realizzi. Chi dichiara di “non essere antispecista” sta invece solo dicendo che non vuole esserlo[3], anzi che nemmeno vuolevoler esserlo.. Chi dice “non sono antispecista” pensa di fare unaconstatazione di fatto (come dire: “non sono vegano”, “non faccio le cose che fai tu” ecc.) ma in realtà sta facendo una dichiarazione di intenti: sta dicendo “io non voglio essere antispecista”, cioè “non intendo fare tutto il possibile perché la libertà e la giustizia valgano per quanti più esseri viventi possibili”. Sta insomma chiudendo la sfera del possibile con una sua decisione.

Nessuno contesta la legittimità di questa decisione. Ma essa andrebbe esplicitata e non nascosta dietro razionalizzazioni a posteriori. Gli interlocutori degli antispecisti dovrebbero cioè avere il coraggio di ammettere ciò che non vogliono e dovrebbero poi chiedersi perché la libertà che sono disposti ad accordare ad altri esseri coincida curiosamente con i confini del proprioprivilegio. Perché allora gli antispecisti potranno sempre pensare che quella che appare una decisione “libera” sia in realtà condizionata da un semplice ed egoistico interesse. E a pensar male, come diceva qualcuno, si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca.



[1] Ad ogni modo, anche sull’identità dell’antispecista dirò qualcosa verso la fine di questo intervento, perché anch’essa può dare adito a interpretazioni errate

[2] Non è qui ovviamente il caso di aprire la questione enorme della scienza e della tecnica. È chiaro, però, che se si accetta in parte l’evoluzione della scienza e della tecnica (come tutti i sostenitori delle fattorie “tradizionali” e dell’auto-produzione fanno), non si può negare il loro possibile sviluppo futuro. Altrimenti si cade in una posizione “primitivista” che nega, a mio modo di vedere in modo generico e affrettato, che si possa criticare scienza e tecnica in nome di una razionalità più ampia, una razionalità non alienata ma “erotizzata” nel senso di Herbert Marcuse. D’altronde, il nostro rapporto con l’ambiente e le altre specie è da sempre mediato dalla tecnologia (l’industria litica ci precede addirittura nell’evoluzione): la tecnica è parte della natura umana, non è qualcosa che le si sovrapponga dall’esterno e, dunque, al pari dei modi di produzione tradizionali, anche qui qualcuno dovrebbe spiegarequando è che lo sviluppo tecnologico dovrebbe arrestarsi per essere considerato “ottimale”. Al neolitico? Al paleolitico? E a quale delle tante e diverse “fasi” del paleolitico?

[3] Ringrazio Marco Reggio per questa osservazione.

domenica 13 marzo 2011

Nasce il progetto Bio-violenza

http://bioviolenza.blogspot.com/
Il progetto BIO-VIOLENZA nasce dal desiderio di alcuni attivisti di denunciare, all’interno del vasto mondo dello sfruttamento degli animali a fini alimentari (allevamenti, pesca e caccia), l’emergente strategia produttiva e soprattutto ideologica di quei settori che a vario titolo promuovono forme di allevamento e macellazione cosiddette “sostenibili”, “etiche”, biologiche, rispettose dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori, delle comunità locali e, perfino, del “benessere animale”. Riteniamo che tale filone di pensiero e di sfruttamento animale non sia per nulla etico e non rappresenti in alcun modo un avanzamento verso l’abolizione della schiavitù animale o verso la messa in discussione radicale dei rapporti uomo/altri animali. Riteniamo che esso debba essere denunciato smascherandone le contraddizioni, poiché la facciata di “sostenibilità” di questi allevamenti, apparentemente contrapposti agli allevamenti intensivi, permette ai consumatori di tacitare la propria coscienza che mostra segnali di risveglio, continuando a sostenere, commercialmente e politicamente, un massacro non accettabile e non “riformabile”.

Il progetto BIO-VIOLENZA si configura quindi come:

a) osservatorio sull’ideologia della “buona carne?”, che monitori lo sviluppo delle tematiche di allevamento biologico, sostenibile, etico e della relativa propaganda
b) sviluppo di una contestazione puntuale delle contraddizioni di tali temi, contestazione tesa a mostrarne l’ipocrisia, la strumentalizzazione delle istanze di sensibilità verso gli animali, la non compatibilità con le esigenze del soggetto animale e con i suoi bisogni (vita, libertà, non sofferenza)
c) promozione di iniziative di piazza e simili volte a rendere visibile la condizione animale, a criticare apertamente tali contraddizioni e a far emergere le esigenze vitali del soggetto oppresso (gli animali non umani “da reddito”) - soggetto degno di essere preso in considerazione indipendentemente dai temi associati al settore dell’allevamento non intensivo (qualità, salute dei consumatori umani, diritti dei lavoratori umani, impatto ambientale, ecc.). Tali iniziative dovranno essere messe in campo, in particolare, in occasione di fiere, congressi, manifestazioni di rilievo organizzate da istituzioni, associazioni, settori dell’industria della carne
d) contestazione degli apparati istituzionali e para-istituzionali che sostengono l’industria e l’ideologia della violenza bio
e) sviluppo costante del sito che accoglierà segnalazioni, testimonianze, documenti e materiali sul tema
f) attività volta a scardinare i principi che sottendono l’apparente semplicità dell’impianto della “buona carne?”; incentivare una nuova consapevolezza critica per ideare la “controffensiva” animalista nei confronti di questo nuovo tipo di sfruttamento che integra, nel “normale”, una crudeltà autentica e non diversa da quella degli allevamenti intensivi
g) raccolta di adesioni individuali e collettive alle iniziative del progetto BIO-VIOLENZA, purché queste siano persone e realtà dichiaratamente contrarie ad ogni forma di oppressione e discriminazione anche in ambito intraumano

venerdì 7 gennaio 2011

Università dell'età della ragione

A breve comincerà un'ottima iniziativa dell'UAAR e del Politecnico di Milano a cui parteciperò come relatore e che ho contribuito, se pur in minima parte, ad organizzare. Ecco come si presenta:

In una società sempre più secolarizzata, ma al tempo stesso sottoposta all’influenza sempre più intensa di un numero sempre maggiore di visioni del mondo religiose, è imperativo aver pronti gli strumenti culturali per poter sviluppare un dialogo laico e razionale sulle molteplici questioni che ormai affollano il tavolo della discussione. Per favorire l’acquisizione di questi strumenti, il circolo di Milano dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti organizza una piccola Università dell’età della ragione: quattro corsi, di quattro lezioni l’uno, che toccano diversi temi legati alla laicità.

Per info e approfondimenti su dove, come, quando e perché:

Intervista a Totò, meravigliosa!



c'è più di quello che si vede in questo video, ad esempio un simpatico controesempio all'identità degli indiscernibili (e viceversa)

giovedì 25 novembre 2010

COME SCRIVERE UN SAGGIO DI FILOSOFIA

Tratto da qui

1. Lo scopo della relazione di filosofia

Un elaborato di filosofia deve proporre l’analisi critica di una tesi ed una difesa ragionata di una certa posizione. (es. In queste pagine mi propongo di offrire alcune ragioni per rifiutare la tesi espressivista di Gibbard secondo la quale.... In alternativa, propongo di considerare alcuni argomenti avanzati a favore della interpretazione realista dei giudizi morali, secondo la quale...)
Ogni opinione deve essere difesa sulla base di ragioni (es. La critica di Williams alla teoria etica mi sembra poco convincente perché si basa su una concezione molto peculiare e ristretta dei compiti della teoria).

2. Le virtù di una relazione di filosofia

* Chiarezza: cercate di esprimervi in modo semplice e diretto. Usate un linguaggio semplice e conciso. La chiarezza è più importante dell’eleganza letteraria in questo caso. Usate i termini filosofici con accuratezza e precisione (consultate il dizionario filosofico se non siete sicuri).
* Analisi degli argomenti: offrite un’analisi critica del problema filosofico, presentate diversi approcci e confrontateli. Il lettore non è interessato alla vostra opinione in quanto tale, ma al modo in cui la difendete, alle vostre ragioni. Rendete le vostre ragioni esplicite. Provate a vedere a quali obiezioni sono vulnerabili. Cercate di rimediarvi.
* Offrite degli argomenti a favore della tesi che difendete. (A favore della tesi dell’autonomia si possono esibire certe pratiche comuni come quella del biasimo. Si biasimano le persone quando le si ritiene responsabili di una qualche azione cattiva. Se non attribuissimo loro autonomia, non avrebbe senso biasimarle.)
* Rendete chiara la struttura dell’argomento facendo spesso il punto della situazione. (Ho difeso la tesi dell’autonomia ricorrendo a due ordini di ragioni. In primo luogo, ho fatto notare che la pratica morale del biasimo presuppone l’attribuzione di autonomia. In secondo luogo, ...)
* Usate esempi per illustrare una tesi o per mostrare che vi sono contro-esempi alla tesi che state esaminando. (L’esempio di Gauguin così presentato mostra che gli obblighi morali non possono avere sempre priorità deliberativa. Il caso di Anna Karenina mostra che certi progetti fondamentali sono soggetti alla sorte e che quindi il giudizio morale su di essi può essere solo retrospettivo.)
* Date sempre una motivazione: perché vi interessa questo tema? Perché ritenete sia importante? (Il mio scopo è fornire una rappresentazione adeguata del disaccordo morale. Ciò è particolarmente rilevante per capire se ci sono disaccordi che resistono all’argomentazione razionale e che conseguenze hanno sulla convivenza civile.)
* Cercate sempre di dare la lettura più caritatevole dell’argomento che presentate, non riducete l’avversario ad una posizione ridicola: altrimenti perché bisogna prenderlo in considerazione?
* Quando proponete un’obiezione, cercate di immaginare si potrebbe replicare e indagate se l’autore in questione ha effettivamente preso in considerazione il tipo di obiezione che avanzate. Considerate se tali repliche (effettive o possibili) sono convincenti.
* Organizzazione logica: ciò che scrivete deve essere ordinato, argomentato e giustificato. Usate solo espressioni necessarie ad esprimere la vostra posizione. I paragrafi e le sezioni devono esibire una struttura logica.
* Avete poco spazio a disposizione: utilizzatelo per esaminare làargomento nei dettagli, non perdete tempo a dare informazioni generali (es. NON iniziate così Kant è un filosofo illuminista molto importante per l’etica contemporanea, nacque a Konigsberg una ridente cittadina della Prussia...MA così: Oggetto di questa relazione è la tesi kantiana dell’autonomia; sosterrò che vi sono buone ragioni per difendere una concezione kantiana dell’autonomia, in particolare....)
* Rendete esplicite le vostre tesi. (A mio avviso la tesi kantiana dell’autonomia spiega la nostra esperienza ordinaria della morale.)
* Nel primo paragrafo introduttivo illustrate lo scopo della relazione e il metodo (che cosa cercate di mostrare e quali sono I vostri argomenti). (Lo scopo di questo articolo è di difendere la tesi kantiana dell’autonomia. A questo scopo, userò due argomenti che fanno riferimento all’esperienza ordinaria.)
* Durante l’argomentazione ricordate al lettore a che punto siete nel vostro ragionamento, e che cosa si deve aspettare. Rendete la struttura dell’argomento esplicita e date sempre delle segnalazioni al lettore (Avendo presentato l’argomento a favore dell’autonomia, bisogna ora considerare se questo è un modello di autonomia desiderabile. È ciò che mi propongo di fare nella prossima sezione.)
* Concludete cercando di mostrate in che modo questa discussione è stata utile (a chi scrive, e a chi legge)
* Originalità: non è sufficiente fare una lista delle posizioni o di considerazioni slegate sul problema X, bisogna dare una struttura logica alla discussione. Ciò non significa che dovete dare un contributo filosofico originale, ma che dovete mostrare di poter difendere una convinzione filosofica sulla base di un argomento.

3. Abbozzi e schemi di argomentazione

Una relazione di filosofia deve esibire una struttura ed una organizzazione logica. Per renderla evidente, è utile avvalersi di abbozzi o schemi di argomentazione. Dite esplicitamente e chiaramente: a) lo scopo che vi prefiggete, b) per quale ragione ritenete che sia importante affrontare questo tema, c) presentate gli argomenti precisandone bene gli stadi (rendete esplicite le assunzioni implicite, segnalate i passaggi critici, immaginatevi le obiezioni, le repliche, fate esempi o contro-esempi), d) chiarite quali conseguenze seguono dalla vostra discussione.
4. Citazioni e Note

Se citate una fonte usate virgolette o separate il testo citato dal resto e indicate la fonte in nota.
Date sempre riferimenti bibliografici complete, secondo questo metodo:
Libro: Nozick R. (1981), Philosophical Explanations, Cambridge: Harvard University Press
Articolo in rivista: Rawls J. (1980), “Kantian Constructivism in Moral Theory”, Journal of Philosophy, 77, pp. 515-572
Volume collettaneao: Engstrom S. & J. Whiting (1996) Aristotle, Kant, and the Stoics, Cambridge: Cambridge University Press
Articolo in volume collettaneo: Herman B. (1996), “Making Room for Character”, in Engstrom, & Whiting 1996, pp. 36-60

Per i riferimenti nel testo, segnalate cognome dell’autore, data, pagina: Nozick 1981, p. 203.

Ogni attribuzione deve essere suffragata da riferimenti bibliografici (es. Williams attacca la tesi imparzialista, vd. Williams 1981, p. 15). Le citazioni debbono essere segnalate da virgolette e commentate. (es. Come scrive Williams: “xwy”, Williams 1981, p. 15. Questo passo mette in luce…)

5. Plagio e integrità accademica

Se la tesi che sostenete è derivata dalla lettura di lavori altrui, dovete riconoscere il vostro debito intellettuale in nota e citare precisamente la fonte da cui avete tratto ispirazione. Citare passi da altri lavori senza usare virgolette e senza riconoscere in nota la fonte è una violazione grave dell’integrità accademica: si chiama plagio.

giovedì 21 ottobre 2010

La donna dei gatti



Ricevo e segnalo con piacere questo pezzo di un amica, ma si dai diciamolo pure, un amica: Anna Mannucci. Il pezzo era uscito per la rivista di etnologia “ErreEffe, La ricerca folklorica. Contributi allo studio della cultura delle classi popolari”, numero dedicato a Retoriche dell’animalità, Grafo editore, Brescia ottobre 2003. Cliccate qui e scaricate il pezzo.

giovedì 26 agosto 2010

Letture Animaliste


Sabato 4 Settembre, al Veganch'io di Vimercate, in provincia di Monza e Brianza si terranno delle letture animaliste. Massimo Filippi leggerà un brano di Ceronetti, poeta, filosofo e giornalista nato nel 1927 . Leonardo Caffo, ovvero il sottoscrito, leggerà un brano tratto da "La vita degli animali" di John Maxwell Coetzee.

Ore 11. 30 presso l'area allestita (feste) di Via degli Atleti, a Vimercate appunto!



giovedì 15 luglio 2010

Festival antispecista in provincia di Milano

VEGANCH'io
Festival antispecista in provincia di Milano


Tre giorni di incontri, divertimento, buon cibo (biologico e sostenibile) per diffondere una nuova cultura del rispetto e dei diritti: si può vivere, e bene, senza uccidere e senza sfruttare nessuno.
Perchè una nuova idea di uguaglianza possa prendere corpo
Tutti, ma proprio tutti, sono invitati a partecipare; ognuno, anche i più piccoli, avranno modo di avvicinarsi alla questione dei diritti animali in maniera amichevole e completa.

Sito ufficiale del VEGANCH'io

Radio Voice: radio antispecista!

Radio Voice è una radio antispecista, lotta contro la convinzione , basata su di una semplice apaprtenenza di specie, che gli esseri umani godano di uno stato morale superiore rispetto agli altri animali e in virtu' di questo debbano godere di maggiori diritti; infatti la teoria antispecista sostiene che "la sola appartenenza biologica ad una specie diversa da quella umana non giustifica moralmente o eticamente il diritto di disporre della vita, della liberta' o del lavoro di un essere senziente"
L'antispecismo tende al riconoscimento morale dell'animale ed a considerare tutte le specie viventi senzienti uguali, a prescindere dal loro livello evolutivo e quindi riconosce tutti gli individui appartenenti alle diverse specie viventi senzienti titolari di tutti quei diritti fondamentali compatibili con la loro condizione

lunedì 7 giugno 2010

The Brain Functional Networks Associated to Human and Animal Suffering Differ among Omnivores, Vegetarians and Vegans

PloS ONE per l'articolo completo. Clicca qui

Introduction

Social cognition includes mental processes necessary to understand and store information about the self and other persons, as well as interpersonal norms and procedures to navigate efficiently in the social world [1]. Basic abilities underlying social cognition include the perception and evaluation of social stimuli, the integration of perceptions with contextual knowledge, and finally the representation of possible responses to the situation. One of the hallmarks of social cognition in humans is the ability to understand conspecifics as beings like oneself, with intentional and mental lives like one's own [2]. Accordingly, human beings tend to identify with conspecifics and attribute mental states to them. Such abilities rely on the activity of several brain regions, including the frontal lobes (orbitofrontal cortex, medial prefrontal cortex, and cingulate cortex), the temporal lobes (including the amygdala), the fusiform gyrus, and the somatosensory cortices[3], [4], [5]. The majority of these regions is also critically involved in the processing of emotions [6]. This suggests that the merging between emotions and feelings experienced by oneself and those perceived in other individuals may be a key ingredient of social understanding, and it may play a major role in promoting empathy, prosocial behaviours, and moral norms [1], [3]. Moreover, empathic responses can be modulated by the subjective attitude held toward suffering individuals [7], as well as by personal experience [8]. Several functional magnetic resonance imaging (fMRI) studies showed that observing the emotional state of another individual activates a neuronal network involved in processing the same state in oneself, whether it is pain, disgust, or touch[3], [4], [5]. Empathy toward another person, which can be defined as the ability to share the other person's feeling in an embodied manner, has been related to recruitment of a network mostly including the somatosensory and insular cortices, limbic regions and the anterior cingulate cortex (ACC). Whereas cognitively inferring about the state of other person (known as theory of mind) has been associated with recruitment of medial prefrontal regions, the superior temporal sulcus and the temporo-parietal junction[4].

A few investigations have also assessed whether affective links between people modulate their brain empathic responses to others, such as when these are loved ones or strangers[9], or when they are believed to be fair or unfair persons [7], [9]. The majority of previous studies attempting to characterize empathy-related responses did not separate empathy towards humans from that towards animals. Furthermore, in some studies, scenes showing animals were treated as a neutral condition. However, a recent study [10] that compared stimuli depicting human and non human animal targets demonstrated higher subjective empathy as the stimuli became closer in phylogenetic relatedness to humans (mammalianvs. bird stimuli), thus indicating that empathic response towards humans may generalize to other species.

In this study, we postulated that the neural representation of conditions of abuse and suffering might be different among subjects who made different feeding choice due to ethical reasons, and thus result in the engagement of different components of the brain networks associated with empathy and social cognition. In details, we tested the hypothesis that the neural processes underlying empathy in vegetarians and vegans may not only operate for representations about humans but also animals, and thus vary between them and omnivore subjects. Vegetarians and vegans, who decided to avoid the use of animal products for ethical reasons, have a moral philosophy of life based on a set of basic values and attitudes toward life, nature, and society, that extends well beyond food choice. The earliest records of vegetarianism as a concept and practice among a significant number of people was closely connected with the idea of nonviolence towards animals and was promoted by religious groups and philosophers. The term veganism, which was coined from vegetarianism, acknowledges the intrinsic legitimacy of all sentient life and rejects any hierarchy of acceptable suffering among creatures. Veganism is a lifestyle that seeks to exclude the use of animals for food, clothing, or any other purpose [11]. The central ethical question related to veganism is whether it is right for humans to use and kill animals. Due to these differences of believes and behaviours, we also hypothesized that, in addition to a common shared pattern of cortical processing of human and animal suffering, vegetarians and vegans might also have functional architecture differences reflecting their different motivational factors and believes.

venerdì 4 giugno 2010

Il moralista provvisorio







"Il moralista provvisorio", cortometraggio vincitore del concorso cinematografico D.E.S.I.C.A. ("Daylong Emergent Showbiz Initiative Cremonapalloza Award"), edizione 2010. Tema del concorso: "segni particolari: sguardo di traverso".