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mercoledì 20 aprile 2011

Una recensione, su Notizie Radicali

Francesco Pullia
Soltanto per loro, un libro di Caffo per farla finita con lo sfruttamento animale

20-04-2011

Lo sfruttamento animale, diretta e inevitabile conseguenza dello specismo, non è affatto un’ulteriore forma di oppressione in aggiunta alle altre già conosciute, ma il fondamento stesso, come già acutamente sottolineato da Horkheimer e Adorno, di ogni pratica di sterminio di massa. E’ venuto il momento di averne piena consapevolezza e di smantellarne i presupposti se davvero si vuole costruire una società nonviolenta. Con il pretesto alimentare e con quello pseudoscientifico (vivisezione, sperimentazione animale), ma non solo, siamo quotidianamente complici di un sistema di riduzione, espulsione e annientamento dell’altro.

Sulla base di questo atteggiamento totalizzante abbiamo piegato e conformato lo stesso diritto a nostro uso e consumo, estendendo ovunque l’assoggettamento sistematico e la manipolazione dei corpi come segno di dominio, soggiogando, criminalizzando, fagocitando (in senso letterale) quanto, secondo una visione arrogantemente antropocentrica e cartesiana, si pone al di là della cesura ontologica unilateralmente decisa dall’uomo.

In questa direzione, il diritto viene ad essere la sfera in cui si sanciscono e codificano arbitrio e pregiudizio e si impone la violenza strutturale che espelle, espunge, dal contesto generale la diversità animale, paradigma per antonomasia di ogni altra differenza. Da questo stato delle cose presenti, per usare una terminologia marxiana, si può uscire tramite l’assunzione di un pensiero che restituisca agli altri esseri ciò che spetta loro ontologicamente.


Alla reintegrazione delle altre specie nel pensiero del mondo è dedicato “Soltanto per loro, un manifesto per l’animalità attraverso la politica e la filosofia” (Aracne editrice, 2011) di Leonardo Caffo, studioso che si ricollega a quella corrente filosofica che, nata con l’intento di approfondire problematiche antispeciste, sta arricchendo, con echi provenienti dalla critica francofortese e dal poststrutturalismo, quanto introdotto negli anni settanta da Peter Singer e Tom Regan.

Due punti ci sembrano particolarmente meritevoli d’attenzione nell’analisi di Caffo:
1)in una prospettiva di ripensamento e ricostruzione del sociale, l’animalismo è l’“universalizzante del diritto” (le differenze tra i viventi non possono assolutamente giustificare lo sfruttamento programmatico e perentorio degli altri animali da parte dell’uomo) e
2) l’obiettivo finale dev’essere una società liberata da ogni forma di oppressione.

Perché ciò possa effettivamente verificarsi occorre una “kehre”, una svolta radicale nel nostro modo di rapportarci all’altro che parta dal presupposto della vulnerabilità, della mortalità che, senza alcuna differenza, ci accomuna tra esseri senzienti e che, come giustamente ha ravvisato Derrida, rappresenta la possibilità “meno propria” dell’esistente, anzi la più impropria ed “espropriante”: “è la morte stessa”, annota Caffo, a renderci infatti “infinitamente collegati con l’animalità ed è un passaggio necessario alla costituzione di quella filosofia che deve fare da sfondo all’animalismo”.

Di qui la necessità di ripensare l’umano “in un mondo che non appartiene all’umano”, di dirigerci “verso un orizzonte oltreumano” facendo tesoro, ad esempio, della fecondità del “divenire-animale” su cui si è soffermato Gilles Deleuze in polemica con il fallo(antropo)logocentrismo (si noti bene che Derrida, in altri modi, ha serratamente criticato il sistema carnologofallocentrico).

Se Deleuze ci ha invitato a decolonizzare il soggetto pensante dal dominio dualistico, a perorare la dissoluzione di ogni sorta di identità basata sulla opposizione di genere, Caffo, da parte sua, ci suggerisce “una riflessione sugli animali che provi a mettersi nei loro panni”, che presti loro l’ascolto dovuto, restituisca voce alle vite offese, sia, per citare Matthew Calarco, attenta “alle modalità specifiche con cui gli animali si oppongono all’assoggettamento e alla dominazione”.

Detto altrimenti, si tratta di “guardare il mondo con gli occhi dell’altro e l’altro con i nostri”.
Non resta, dunque, che incontrare l’altro riscattandolo dai lager, dai luoghi dello sterminio e dello smembramento, come il mattatoio da cui il soggetto esce fatto a pezzi. I maiali, ad esempio, annota in questo senso Caffo, “vengono smantellati simbolicamente e materialmente e ricomposti, in vari modi e sotto falsi nomi (“pancetta”, “salame”, “mortadella”, ecc.) nelle nostre tavole e nei vari dispositivi di dominio delle nostre società. L’animale scompare come sostanza vivente e ricompare come artificio dell’uomo”.

Lo stesso Slow Food non si sottrae a questa “ideologia dello sterminio” contrabbandando per “carne felice” quanto viene ottenuto da un’ennesima uccisione. Anzi, per dirla tutta, è un’operazione ancora più ipocrita mirante solo, tramite una pseudo trasparenza, a “depurare”, a rendere “più pulite”, le coscienze dei consumatori.

Il felice massacro degli animali”, scrive Caffo, “la carne che viene da un morto contento, non è solo un modo per tacitare le coscienze facendo pensare che in fondo mangiare animali non comporta le nefandezze a tutti note degli allevamenti intensivi, ma diventa anche un modo per reintrodurre la morte, l’uccisione degli animali nel quotidiano, o per reintrodurre il rapporto diretto con lo sfruttamento degli animali”. In realtà, con lo Slow Food, con il “biologico”, si finisce per avallare ancora una volta la capacità umana di sgozzare e trucidare senza troppi scrupoli etici. L’ideologia della carne biologica e sostenibile serve a trasformare pretestuosamente pareti di cemento in pareti di vetro a spacciare per “serena” la fine dell’animale.

Anche l’ambientalismo e la cosiddetta “ecologia profonda” non possono sottrarsi a queste critiche, essendo sempre aspetti dello specismo antropocentrico. Che fare, dunque? Decostruire (l’umanesimo) e ricostruire (una nuova filosofia della vita), accomiatarsi dalla violenza rimarginando secoli di ferite, scarti, cesure tramite l’affermazione della compresenza, sostituire al pensiero del dominio quello della compassione. Ha ragione Derrida a sostenere che è in corso “una guerra della pietà”, una lotta che va combattuta mettendo in gioco il nostro cuore.


Fonte: qui.

lunedì 27 settembre 2010

I confini dell'umano visti da un albergo?

Un po' di tempo fa avevo scritto questo articoletto che è in realtà una doppia recensione poi, rileggendo, non mi è più piaciuto e non l'ho mandato in pubblicazione. Lo metto qua, forse a buon rendere, forse no.

Anche l'uomo più miserabile è in grado di scoprire le debolezze del più degno,

anche il più stupido è in grado di scoprire gli errori del più saggio.”

(Adorno)


Introduzione


Esistono tanti e svariati modi di scrivere. Gli argomenti sono diversi, così come sono diversi gli stili di scrittura e il modo in cui ci si approccia nel riempire il primo fatidico foglio bianco. Si può scrivere per infiniti motivi, per amore, per gloria, per vanità… Ma si può scrivere anche per una causa che trascende la limitatezza delle pagine che si stanno riempiendo e, nella maggior parte dei casi, i testi o gli articoli in tal modo prodotti rappresentano qualcosa di più grande rispetto ad un semplice oggetto di lettura. Esempi innumerevoli si possono citare ognuno dipendente dal suo contesto di riferimento; la Bibbia, per il cattolico, trascende l’oggettualità della cosa e diventa l’orizzonte a cui guardare durante tutta la propria esistenza; il DSM per lo psichiatra diventa l’oracolo della sintomatologia, ecc… Nella storia della filosofia sono stati prodotti molti testi ma pochi sono diventati la Bibbia (o il DSM) del filosofo, dentro l’insieme di questi pochi testi hanno un posto di rilievo, ad esempio, la Critica del Giudizio di Kant o La Monadologia di Leibnitz. Possiamo immaginare la filosofia come un’enorme categoria di cose contenente, al suo interno, innumerevoli sottocategorie rappresentate dalle diramazioni concettuali della categoria stessa (Filosofia Morale, Filosofia del Linguaggio, Estetica, ecc…). Una di queste sottocategorie, la Filosofia Morale, ha dei confini complessi da definire. Morale rispetto a cosa? Qual è l’estensione territoriale di questa scienza? Filosofi di ogni epoca hanno discusso questa questione, qualcuno come già Pitagora estendeva la questione morale anche al regno animale non umano altri, come invece Aristotele, la restringevano all’umano. Nonostante la complessa discussione la filosofia morale “animale” è ormai una disciplina attiva, articolata e complessa. Anche in questa sottocategoria della filosofia esistono dei testi di riferimento, sopra tutti Liberazione Animale di Peter Singer e Diritti Animali di Tom Regan. La produzione letteraria in questo campo è relativamente ridotta rispetto ad altri settori e i motivi sono molti; l’interesse per la questione animale e molto scarso, qualcuno crede che si sia già detto tutto e, spesso e volentieri, i testi prodotti sono contro questa disciplina come, ad esempio, il discusso Gli animali hanno diritti? di Roger Scrouton. Alcuni momenti e contesti risultano favorevoli per la produzione letteraria in certi settori, gli incontri tra uomini, le discussioni, le collaborazioni, possono sfociare, in alcuni casi, in dei lavori comuni che violano la regola per crearne di nuove. Milano da un po’ di anni a questa parte sembra essere diventata il centro dell’elaborazione filosofica e politica della questione animale. Sancire i momenti precisi in cui le cose iniziano non è mai facile ma individuare gli attori di questi momenti è un compito più semplice. Ai fini di questo articolo si citeranno solo due nomi: Massimo Filippi e Filippo Trasatti. Eviterò di raccontare vite e qualifiche curriculari “tipo lista della spesa” di queste due persone, ma mi soffermerò su un dato fondamentale per dare uno sguardo nuovo alla questione animale: l’uscita contemporanea di due nuovi testi Ai confini dell’umano1 e Nell’albergo di Adamo.2 Il primo dei due testi è scritto da Massimo Filippi e rappresenta un nuovo e complesso tentativo di approcciarsi alla questione animale ponendo come punto d’arrivo (e in verità anche di partenza) la morte “ridotandola” della sua necessarietà. Il secondo libro è curato da Filippo Trasatti e Massimo Filippi e contiene, in quanto antologia di testi, numerosi contributi di filosofi e teorici che tentano, ognuno in modo originale, una descrizione strutturale della situazione animale.


Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte.


Stanisław Jerzy Lec, poeta e scrittore polacco, pensava che il primo sintomo della morte fosse la nascita. Aveva ragione? In un certo senso sì, come si dice il giusto se si afferma che nel momento in cui si inizia a percorrere un sentiero finito si è già pronti a terminarlo. Il naturale percorso dell’essere vivente tende alla morte tanto quanto un grave lasciato cadere da una torre tende verso il terreno (è quella che Aristotele avrebbe chiamato “causa finale”). La cultura contemporanea è impegnata nel dominare l’irrazionalità ed in questa operazione domina se stessa e il suo più grande terrore: “la realtà esterna” che può essere riassunta con il termine di morte. Adorno spiegava questa negazione della morte da parte dell’uomo sociale come una negazione stessa del corpo e della nostra radice biologica più profonda: l’animalità. Attraverso la società dell’uomo razionale la morte perde la sua caratteristica di proprietà essenziale e sprofonda nella leggerezza della contingenza. Le critiche a questa visione “stereotipata” della morte sono, nella storia della filosofia e del pensiero in generale, continue e complesse, basti pensare ad Heidegger e alla sua visione della morte come la “possibilità della pura e semplice impossibilità dell'Esserci”. Tutte queste critiche però, lo si nota immediatamente, sono impregnate dello stesso elemento che si vorrebbe criticare: l’antropocentrismo; per quanto si cerchi di reincorporare la morte nella dimensione dell’esistenza, infatti, questa esistenza rimane sempre esclusivamente umana e non ne trascende mai i suoi confini...

Un nuovo tentativo di percorre universalmente questo viaggio verso la morte è stato fatto, come accennato nell’introduzione, da Massimo Filippi che diventa, per il lettore, il cocchiere di due carri quello dell’accalappiacani e quello dei cani morti, due carri che attraversano trasversalmente tutti gli scritti di Adorno e che attraversano noi stessi inducendoci la domanda: siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i cani? Il sentiero attraverso cui ci guida l’autore e che ci porterà a capire come i due carri siano in realtà lo stesso carro visto da due lati diversi, è un sentiero che profuma di animalismo ma con un odore completamente nuovo, passando per l’antispecismo analitico di prima generazione, osservando quello continentale di seconda e interiorizzando la riflessione fenomenologica acamporiana che sancisce il passaggio dalla “carne del mondo” al “mondo della carne”. La riflessione animalista che emerge dal testo è completamente nuova ma forte delle basi del passato antispecista, superando la necessità di inglobare antropologicamente le capacità animali nelle nostre e tralasciando riflessioni profonde ma inconcludenti; l’animale diviene, adesso, l’intermediario dell’umano metafisico e la sua presunta “povertà di mondo” non è semplice mancanza, ma assenza che si da come paradossale ricchezza in quanto dischiude la possibilità della comunicazione, contrapposta all’auto – dialogare dell’uomo attraverso la sua filosofia metafonica. Il concetto di sfruttamento inteso nella sua globalità è analizzato, ancora una volta, attravero Adorno che aveva individuato come ogni cattiveria umana (nella sua apparente diversità) è invece unificata dallo stesso uso di linguaggio3. L’immersione nell’in – umano attraverso cui ci guida Massimo Filippi è un percorso complesso, attraverso il dialogo con la filosofia, la letteratura e le neuroscienze, si figura il vero oggetto del nostro parlare: noi stessi intesi non più come “Gli animali” ma come “animali tra gli animali”, pronti a accettare quell’altro che si figura in mille modi ma che è esemplificato dolcemente dal finire di tutte le cose, la morte, proprietà necessaria e non contingente.


Nell’albergo di Adamo. La “questione animale e la filosofia”


Come già ampiamente discusso nell’introduzione i rapporti tra filosofia e questione animale sono complessi e non è facile chiarire le dinamiche attraverso cui si è sviluppata la letteratura scientifica che cerca di coniugare, o meglio, di fondere queste due categorie. In questo testo assistiamo ad un fenomeno articolato in cui dodici autori (due dei quali sono anche i curatori del testo stesso), divisi in gruppi da tre, si passano un testimone filosofico (talvolta scientifico) per discutere il loro modo di approcciarsi ai problemi inerenti alla questione animale. Leggendo il testo si ha l’impressione di partecipare ad un enorme esperimento mentale4 in cui si attraversa un albergo molto particolare. Come tutti gli alberghi che si rispettino, anche questo ha una hall (a cui si può accedere solo dopo aver letto un avviso degli albergatori); il viaggiatore (lettore) che si addentrerà in questo albergo potrà ascoltare le opinioni filosofiche di tre personaggi, Carol J. Adams, Vinciane Despret e Roberto Marchesini che avranno il compito di guidarci attraverso le stanze dell’albergo, che scopriremo poi essere stanze molto diverse tra loro ma con una vista sullo stesso mare. Le stanze del nostro albergo sono cinque, così come sono cinque gli inquilini di queste stanze; la prima stanza è abitata da Enrico Giannetto che, nonostante la veste scientifica, sceglie di raccontarci una storia che riguarda Heidegger e il Carnologofallocentrismo; inoltrandoci lungo i corridoio dell’albergo possiamo bussare nella stanza di Matthew Calarco che ci metterà di fronte al volto animale, dipenderà probabilmente dalla nostra reazione la permanenza in questa stanza… Proseguendo il nostro cammino ci imbatteremo nella terza stanza al cui centro, seduto su una sedia che sa di disperazione, troveremo Gianfranco Mormino che, quasi in un vicolo cieco, ci racconta la normale sacrificabilità dell’animale. Rimangono due stanze da visitare, nella penultima Filippo Trasatti mostra il processo filosofico del divenire – animale già esplicitato da Deleuze e, dulcis in fundo, nell’ultima stanza Zipporah Weisberg ci farà promesse mostruose. Arrivati a questo punto, probabilmente, viene voglia di fuggire. Si cercano le uscite di sicurezza… Inaspettatamente sono quattro ma tutte protette da quattro personaggi inquietanti, perché portatori di verità che potrebbero intrappolarci nell’albergo; Marco Maurizzi, Massimo Filippi, Melanie Bujok e Ralph R. Acampora ci sbarrano, ognuno, la propria porta che rappresenta per noi l’unico modo di uscire dalle nefandezze dell’albergo ma per loro la consapevolezza terribile che qualcuno in quell’albergo ci rimarrà per sempre per volere di colui che, biblicamente, ci rappresenta tutti… Adamo colui che attraverso la nominalizzazione degli animali li ha trasformati in cose per volere divino. A questo punto la tristezza del viaggiatore sembra irrimediabile ma una luce da una finestra lontana gli illumina lo sguardo… una possibilità per liberare gli inquilini dell’albergo esiste ancora e il primo passo e proprio visitare la loro prigione.


1 Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte, Massimo Filippi, Ombre Corte, 2010


2 Nell’albergo di Adamo. La questione animale e la filosofia, Massimo Filippi e Filippo Trasatti (a cura di), Mimesis, 2010


3 L’uso del linguaggio è un aspetto fondamentale della questione animale. In generale per riassumere una questione (che ha origine almeno con Sapir – Whorf) complessa potremmo dire con D. de Kerckhove, “Il linguaggio è il software che dirige l’organismo umano. Qualunque tecnologia eserciti un influsso significativo sul linguaggio influirà necessariamente anche sul comportamento sul piano fisiologico, emotivo e mentale. L’alfabeto è come il programma di un computer, ma molto più potente, più preciso, più versatile e più globale di qualunque altro programma mai scritto. Un programma progettato per far funzionare lo strumento più potente che esista: l’uomo stesso. L’alfabeto si è fatto strada all’interno del cervello per definire le routine su cui si basa il firmware del brainframe alfabetico. L’alfabeto ha creato due rivoluzioni complementari, una nel cervello, l’altra nel mondo”. (D. de Kerckhove, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato. Come le tecnologie della comunicazione trasformano la mente umana (1991), a cura di B. Bassi, Bologna, Baskerville, 1993, p. 39.)


4 Un esperimento mentale o esperimento concettuale (in tedesco Gedankenexperiment, termine coniato dal fisico e chimico danese Hans Christian Ørsted) è un esperimento che non si intende realizzare praticamente, ma viene solo immaginato: i suoi risultati non vengono quindi misurati, ma calcolati teoricamente in base alle leggi della fisica.


mercoledì 2 giugno 2010

Terrorismo e Rivoluzione

Avviso agli studenti - Terrorismo o rivoluzione
Sergio Ghirardi
Leonardo Caffo
voto

“L'istruzione scolastica appartiene a gruppi affaristici […]. Resta da sapere se allievi e professori, dal momento che la gestione di un universo in rovine alla quale li si invita non promette nulla di buono, si lasceranno ridurre alla funzione di meccanismi lucrativi senza scommettere sull'ipotesi di imparare a vivere anziché economizzarsi”. Lasciatemelo dire: ci vogliono i coglioni per definirsi liberi pensatori, per campare di stenti, per non fare compromessi, per rinunciare ad una famiglia... per sacrificare la propria esistenza a beneficio di un'idea. Per essere liberi. “Molti hanno deciso di non lasciarsi più consumare da un'economia che se ne infischia della loro salute e della loro intelligenza”...
Raoul Vaneigem è uno di questi, uno con i coglioni insomma. Scrittore libertario belga ed esponente di spicco del movimento Situazionista (oltre che promotore del Maggio francese). Il libro mette insieme due scritti di questo libero pensatore: la critica al mondo capitalistico è radicale, lo slancio poetico è assoluto, perché un'assoluta volontà rivoluzionaria permeava l'aria del '68: la fine di un'epoca, l'inizio di un mondo. Un mondo che, al contrario delle speranze di Vaneigem, ha solo fortificato i suoi presupposti. Leggere questo libro è a tratti commovente, come commovente è l'enorme cultura di quest'uomo educatosi con la sola forza della sua tenacia, l'ostinazione ad evitare il compromesso, a lottare per gli altri. L'istruzione è in mano a dinosauri militarizzati, “Se i governi privileggiano l'allevamento intensivo di studenti consumabili sul mercato, allora i principi di una sana gestione prescrivono di stivare nello spazio scolastico più ridotto la quantità massima di teste modellabili dal numero minimo di personale possibile. […] Noi non vogliamo più una scuola in cui s'impara a sopravvivere disimparando a vivere”. Quanto è vero... quanto è triste... Le nostre scuole insegnano la dipendenza e mai l'autonomia; dipendenza dal denaro, dipendenza da un titolo (Dott. Prof. Ecc...), dipendenza da uno status sociale. Tutto questo ha bloccato il naturale sviluppo della libertà e delle intelligenze umane: ciò che propone Veneigem è una disgiunzione ben precisa, che ha la caratteristica di essere esclusiva. Terrorismo o rivoluzione? Io il primo non lo voglio, e credo neanche voi. Direi che è facile capire che cosa dovremmo fare.

giovedì 27 maggio 2010

Basaglia e le Supercazzole!

Franco Basaglia e la Filosofia del '900
Leonardo Caffo
voto
I primi manicomi furono costruiti da monaci, dentro ci stava chiunque: da intellettuali scomodi a donne emancipate. Regolati secondo la sanità provinciale e gestiti da psichiatri e infermieri - rigorosamente di sesso maschile - i manicomi nel novecento erano costruiti in periferia secondo un'antica usanza, quella secondo la quale il terribile va nascosto al cittadino così come accadeva con i lager durante il nazismo e oggi con i macelli d'animali. Questi remoti posti orribili avevano al loro ingresso un giardino, più in là tra il verde c'erano i padiglioni. In quello più vicino alla strada c'era l'edificio di accoglienza; man mano che ci si allontanava dalla strada gli edifici ospitavano persone con problemi di gravità via via maggiore. Dentro i manicomi stavano i matti, praticamente resi matti però il più delle volte dal manicomio che li teneva dentro perchè erano teoricamente matti. Un triste paradosso che faceva girare la testa, oltre che le balle... Che poi la parola "matto" - oggi la Psichiatria l'ha dimostrato - non voleva dire neanche nulla. Nel 1978, in Italia, la Legge 180/78 di Franco Basaglia regolò la chiusura dei manicomi e furono quindi istituite nell'ospedale generale dei reparti di Psichiatria, case d'aiuto e supporto alle famiglie, centri diurni e ambulatori gestiti da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali. Basaglia ebbe insomma il merito di salvare vite e dignità di migliaia di persone, di riabilitarne l'esistenze e di sensibilizzarci tutti facendoci capire che nascere con un problema psichiatrico o sviluppare in seguito un disturbo psicopatologico è una cosa che potrebbe capitare a chiunque, a partire da noi stessi e dai nostri figli...
Il 10 Dicembre 2008 si è tenuta a Milano, presso l'Università degli studi, una conferenza celebrativa dei 30 anni della Legge Basaglia. In questa occasine filosofi e intellettuali si sono riuniti intervenendo, ognuno a suo modo, sull'argomento. Il libro di cui ora leggete la recensione è il contenitore degli atti di quella giornata. In ambito accademico la dignità è poca, si sa, e tutto diventa occasione per pubblicare, parlare ed apparire. Questo testo si allinea perfettamente a questo andazzo generale. Gli interventi hanno titoli che farebbero ridere Basaglia che, con quel suo stile da cauto gentiluomo, non avrebbe neanche concepito che si parlasse di una sua fenomenologia o che si cazzeggiasse sul suo rapporto con Freud, uno che ha definito fino all'ultimo l'omossessualità come una malattia frutto delle devianze personali e sociali. Basaglia era uno che aveva capito, punto. I suoi occhi avevano incrociato troppe volte quello dei “matti” e ne avevano colto la poesia, frutto di una normalità usurpata dalla società stessa che pretendeva di guarirli. Questo libro è un insieme di supercazzole e il dvd allegato - con il quale pomposamente si diachiara di voler ricostruire "un filo rosso, della durata di poco più di trenta minuti, all’interno del movimento di pensiero dell’intera giornata" - è buono solo come portabicchiere.

domenica 2 maggio 2010

Recensione al nuovo libro di Giorgio Galli


Apparsa su Mangialibri
Leonardo Caffo
voto
Intrecciare psicologia e politica vuol dire tutto e vuol dire niente. La psicologia ha come oggetto lo studio dell'uomo da parte del uomo, la politica ha come oggetto l'amministrazione della società dove l'uomo stesso è inserito. Sembrerebbe naturale guardare alle due sfere come intrecciate o, almeno, influenzate reciprocamente. Nel 1950 Car Gstav Jung introduce il temine "sincronicità" per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. La sincronicità è relativa quindi alle "coincidenze significative"…
Le coincidenze significative è anche il titolo del nuovo libro di Giorgio Galli che, esplorando la storia italiana ed internazionale, rintraccia rapporti tra fatti che, se pur reciprocamente influenzati, sono svincolati da un rapporto di causa ed effetto. La cronaca, gli eventi politici, le guerre, i conflitti offrono numerosi esempi di coincidenze; trovare un nesso che lega scientificamente la maggior parte di questi eventi è impossibile, eppure la nozione di “sincronicità” jungiana calza a pennello; non vanno cercate spiegazioni razionali perché «La causalità è solo un principio, e la psicologia non può venir esaurita soltanto con metodi causali, perché lo spirito (la psiche) vive ugualmente di fini». Nel lavoro di Giorgio Galli coincidenze e politologia sono magistralmente abbinate attraverso incursioni nelle vicende di Matteotti, Mussolini e Moro, attraverso presidenti degli Stati uniti apparentemente lontani come Obama e Reagan. Un esempio di “coincidenza significativa” impressionante vale la pena di riportarlo per intero: “Era l’11 Settembre. Distolti dalla loro missione ordinaria da piloti decisi a tutto, gli aerei sprofondano nel cuore della metropoli, risoluti ad abbattere i simboli di un potere politico detestato. E’ un attimo: le esplosioni, le facciate che deflagrano, i crolli in un fracasso infernale, i sopravvissuti atterriti che fuggono imbiancati dalle macerie. E i media che diffondono la tragedia in diretta…” A cosa vi fa pensare? Al contrario di tutto ciò che immediatamente possono trasmettere queste parole, quello che raccontano, veramente, non è la tragedia di New York, ma quella di Santiago del Cile, l’11 Settembre del 1973. “11” – “Settembre”: ecco un esempio di coincidenza significativa. Galli interpreta davvero originalmente la nozione di Jung e la applica alle sue conoscenze da Politologo; il risultato è un libro dal duplice interesse psicologico e societario che, personalmente, consiglio a tutti. Rinfresca la memoria storica, invita a riflettere e istruisce su tante piccolezze ai più nascoste.

mercoledì 26 agosto 2009

La "Pancetta" di Nori

"Pancetta", di Paolo Nori, 8 euro in Feltrinelli, è un buon libro. Nori è bravo, si riscopre la passione per la letteratura e ci si riappacifica con la mente per un po', dalla filosofia.
"terroristica ebbrezza": Cosa fa di un uomo un poeta? E che cos'è un poeta?
Sono queste le domande che trasversalmente occupano la testa del Nori nel suo "Pancetta", nella Pietrobergo del 1912, tutto muta, tutto cambia. Avnguardia! Questà è la parola d'ordine, i protagonisti, tra sbornie e incontri all'osteria ci riportano ad un'atmosfera che fa tanto "Delitto e Castigo", ma che con più leggerezza ci narra gli incontri di spirito. Pazzia e spettro dell'oblio attassano Majakovskij, narratore discreto della città della neve inserita in una delle stagioni mi maggior cultura della Russia.
Perchè "Pancetta"? Perchè un salume?
Buona Lettura