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sabato 2 aprile 2011

Un'intervista



Oggi, ore 14.30 andrà in onda la mia intervista su Cruelty Free Web Radio. La rubrica si chiama "Oggi parliamo di". E si parla di antispecismo, dicono.

domenica 15 agosto 2010

Intervista a Giorgio Fontana

Apparso su Caosmo, ovvero qui. Fontana segnala, a suo modo, con Nerdagosto
15 agosto 2010
Pubblicato da: Leonardo Caffo


Nasce a Saronno nel 1981 e vive in giro qua e la tra l’Italia e l’estero. Ha pubblicato due romanzi: Buoni propositi per l’anno nuovo (Mondadori 2007) e Novalis (Marsilio 2008). Con il reportage narrativo Babele 56 (Terre di Mezzo 2008) è stato finalista al Premio Tondelli 2009. Dal 2008 collabora stabilmente con la pagina di cultura de Ilsole24ore.com, e con “Terre di Mezzo“; scrive anche su Wired.it. Si è laureato in filosofia a Milano e fa molte altre cose per cui vi rimando al suo sito ma, prevalentemente, Giorgio Fontana è uno scrittore e qui su Caosmo, potete godervi quest’intervista.

1) So che sei laureato in filosofia e che avresti voluto continuare a fare ricerca, come mai la cosa si è spenta li?

1) Non avevo santi in paradiso, ma ci ho provato comunque. Negli anni ho vinto sette posti di dottorato, ma tutti e sette senza borsa (quattro in Canada, due in Francia e uno in Italia). Siccome per me fare ricerca significa lavorare dieci-dodici ore al giorno, non avevo intenzione di fare un dottorato male lavorando per mantenermi: tanto più che avrei continuato a scrivere narrativa. Quindi meglio lasciar perdere e lavorare punto.

2) Su cosa ti sei laureato?

2) Sul concetto di “mondo” nel realismo interno di Hilary Putnam. Mi interesso di epistemologia analitica, teorie degli a priori, dibattito realismo/antirealismo eccetera.

3) I tuoi studi hanno influito nella tua attività da scrittore?

3) Moltissimo.

4) Quando e come si diventa scrittori, e non dico nel senso “privato” ma in quello che poi, burocraticamente, ti rende tale?

4) Mah, direi quando si pubblica un libro (aggiungerei: per una casa editrice non a pagamento). Il punto però è fare in modo che questo evento – la “consacrazione pubblica” come scrittore – non sia fine a se stesso. Al di là della burocrazia, uno scrittore è qualcuno che rende pubbliche (appunto) le sue parole. E credo ci si debba sempre porre la domanda: ne vale la pena? Ne vale davvero la pena? Ho realmente qualcosa da dire?

5) Come nasce l’idea di “Novalis”, che cos’è, in soldoni, l’arte estrema?

5) Stavo gironzolando in biblioteca a Saronno, poco dopo la laurea, e dal nulla mi è venuta l’idea. Non so proprio da dove sia saltata fuori. Non sono un patito di arte estrema né ho letto libri che possano avermi influenzato al riguardo. Mistero.

6) Come e quando hai iniziato a collaborare con grandi nomi dell’editoria come il Sole24 ore?

6) Il caporedattore della cultura online mi ha telefonato un giorno. Aveva letto qualche mio pezzo sulla rete, curiosato sul mio sito, e mi ha chiesto se volessi scrivere per loro. Ovviamente ho accettato. Ma lui è una perla rara.

7) Progetti per il futuro prossimo?

7) Finire il nuovo romanzo, lavorare a un saggio, inaugurare una nuova rubrica sul mio sito, iniziare il romanzo successivo. Scrivere.

8) Quanto consiglieresti ad un ragazzo speranzoso di perseverare nel “sogno” di diventare scrittore?

8) Più che sperare, gli direi innanzitutto di lavorare duro e prepararsi alle inevitabili batoste del mestiere. Ma se crede realmente nelle sue parole, di perseverare al massimo e andare diritto come un treno.

9) E filosofo?

9) Idem, se per “filosofo” intendi fare ricerca in questo campo.

10) Come altri scrittori hai un blog, cosa pensi delle nuove normative del governo a tal proposito?

10) Grazie a Dio non sono ancora “normative” ma si tratta di un disegno di legge. In ogni caso, se venisse ratificato, le conseguenze per i blog sarebbero assurde. Il famoso comma 29, che costringe alla rettifica entro 48h (con sanzioni fino a 12.500 euro per mancato adempimento), non tiene conto del fatto che un blog non è una redazione, e un blogger non è (salvo eccezioni) un giornalista professionista. Se ricevo una notifica mentre sono in vacanza per una settimana e non controllo più né blog né mail, che faccio?

11) Credi che davvero “l’esterofilia” italiana porterà i giovani d’oggi ad occupazioni più dignitose? Non sarebbe meglio restare e lottare per il proprio paese?

11) Domanda difficile. Bisogna intendersi su cosa significa “lottare” e in che modo e con quali prospettive. Ci sto riflettendo su parecchio, ma preferisco non rispondere ora come ora. Rischierei di dire solo banalità.

12) Domanda banale ma te la becchi uguale. Definisciti in tre parole

12) Onesto, scrittore, al momento assai deluso.

13) Consigliaci un libro o/e un autore emergente?

13) Marco Missiroli, “Bianco” (Guanda).

14) Cosa vorresti vedere di diverso nell’editoria Italiana?

14) Più onestà intellettuale, più attenzione al percorso autoriale, e meno febbre del marketing. Va bene, siamo nell’era dell’industria culturale, il libro è un prodotto e tutto quello che volete: ma c’è un forte rischio di svilire la narrazione e l’idea stessa della storia. Ne parlavo qui.
Quello che mi disgusta di più è la tendenza a giustificare tutto con il cinismo: in campo editoriale, ho avuto a che fare con persone veramente ciniche. E’ un brutto ambiente.

mercoledì 23 giugno 2010

Orgoglioso di questa intervista, davvero.

Massimo Filippi
Leonardo Caffo

Occhiali rossi e All Star slacciate, area da ragazzino. Massimo Filippi ha mille facce sovrapposte e solo un occhio attento può osservarle e capirle tutte. Neuoroscienziato del S. Raffaele di Milano, esperto delle moderne tecniche di neuroimaging, professore universitario e filosofo attento alle tematiche etiche riguardanti umani ma soprattutto animali. L'ho incontrato presso l'Università di Milano, e ho parlato con lui di animali, di morte, di Filosofia.
Partiamo dall’inizio. Il titolo del tuo libro Ai confini dell'umano - Gli animali e la morte mette in relazione cose che, per un lettore inesperto, appaiono molto distanti: umano, animali e morte. Puoi spiegarci in breve il motivo di questa scelta?
Il libro, come recita il titolo, rappresenta un tentativo di riconsiderare i confini dell’umano. Poiché tradizionalmente l’umano è sempre stato declinato come ciò che sorge dopo che gli animali e la morte sono stati esclusi o negati, ecco che la relazione tra i tre termini non dovrebbe più apparire eccessivamente esoterica. A ben pensarci, infatti, gli animali e la morte stabiliscono quelli che sono i sono i consolidati confini spaziali (gli animali) e temporali (la morte) dell’umano, i quali nel momento stesso in cui vengono posti sono subito revocati: in tutti i racconti cosmogonici – o, almeno, in quelli “occidentali” – l’umano è ciò che è radicalmente non-animale e quindi di fatto immortale. Dal che discende che il modo in cui definiamo l’animale e la morte determina immediatamente ciò che pensiamo essere l’umano. Detto altrimenti, quello che qui si tenta di fare è tutt’altro che un semplice esercizio accademico perché l’esclusione degli animali e della morte dall’umano non sono mai state operazioni innocenti; è sotto gli occhi di tutti il fallimento della nostra cultura basata su tale operazione: la morte rimossa ritorna come morte istituzionalizzata, come nuda vita, così come l’animale rimosso ritorna come bestialità della società umana.


La tradizione animalista in filosofia ha già prodotto numerosi testi. Perché il tuo dovrebbe contribuire ad ampliare, non solo quantitativamente, ma anche concettualmente questo filone?
In parte per i motivi detti poc’anzi. L’antispecismo “classico” – quello di Peter Singer e Tom Regan, per semplificare e per capirci – pensava di ridefinire l’animale senza toccare lo statuto dell’umano, operando così in una sorta di vacuum ontologico e politico, forse responsabile della sua scarsa “presa” sia a livello filosofico che a livello di opinione pubblica generale. In altri termini, l’antispecismo “classico” accettava di fatto le premesse della metafisica occidentale e si impegnava a ricercare tracce umanoidi (psichiche/cognitive) in (almeno) alcuni animali per farli entrare nel cerchio della considerazione morale. In questa prospettiva l’animale resta una sorta di umanoide incompiuto. Qui si cerca invece di spostare l’enfasi dalla somiglianza alla differenza, iniziando a rintracciare un percorso nuovo per individuare che cosa ci condivide prima di ogni possibile divisione. E ciò che ci condivide, pur lasciandoci differenti, è la vulnerabilità corporea e la mortalità.


Che cos’è l'antispecismo? E, nello specifico, cosa vuol dire vivere da antispecisti?
Per definire cosa sia l’antispecismo, dobbiamo prima definire cosa si intende per specismo. Specismo è un termine coniato a metà degli anni ’70 del secolo scorso e sta ad indicare un pensiero e un atteggiamento pratico tali per cui gli interessi degli individui della propria specie – anche i più futili e non necessari – prevalgono sempre e comunque su quelli di individui di altre specie, compresi quelli più fondamentali, quali l’interesse a vivere, a non soffrire e alla libertà. L’evidenza empirica ormai non lascia più margine al dubbio sul fatto che gli animali abbiano degli interessi e siano in grado di provare piacere e dolore; il nostro pensiero, pertanto, non può che rimodellarsi sulla base di tali acquisizioni che, da Darwin in poi, sono venute costituendosi come una massa tale da essere difficilmente ignorabile. Solo per fare un esempio ogni anno circa 50 miliardi di animali non umani – senza contare quelli di piccola taglia, tipo conigli e molti pesci che sono venduti a tonnellaggio – passano per il sistema “allevamento intensivo – mattatoio” dove, dopo una vita miserabile caratterizzata da sofferenze inaudite, vengono letteralmente fatti a pezzi per questioni di gusto. E a ben pensarci l’alimentazione è solo una parte del problema: l’intera nostra società si fonda teoricamente e materialmente sulla sofferenza e sulla morte degli animali, dal modo in cui ci vestiamo a quello in cui facciamo ricerca scientifica. Vivere da antispecisti allora vuol dire aver ben chiaro che esiste una violenza “naturale”, cu cui possiamo ben poco, e una violenza istituzionalizzata, che invece dobbiamo rigettare. Vivere da antispecisti significa, da un lato, optare per una vita che si impegni ad eliminare dal mondo quanta più sofferenza possibile, diventando vegani e rifiutando ogni prodotto di derivazione animale e, dall’altro, far chiarezza sul fatto, come si alludeva in precedenza, che oppressione animale e oppressione umana sono inestricabilmente correlate e che, quindi, non è possibile pensare di passare da presunzioni gerarchiche a favore di presunzioni ugualitarie senza considerare l’animale, pena la ricaduta in qualche altra forma di illibertà e di sfruttamento.


Nel tuo libro parli di due diverse tradizioni filosofiche che fanno da sfondo alla questione animale: quella analitica e quella continentale. Che differenze ci sono, puoi spiegarcelo in breve?
Nella modernità, la “questione animale” – ossia, come si diceva in precedenza, l’abuso sistematico e istituzionalizzato dei corpi degli animali in proporzioni quantitative inaudite e con un livello di sofferenza neppure lontanamente concepibile – è stata riportata alla luce e alla considerazione della filosofia da parte di autori anglosassoni di stampo analitico. Questi autori hanno offerto una nutrita serie di proposte etico-politiche a favore del miglioramento della condizione animale, senza però prospettare una via d’uscita dalla dicotomia occidentale tra spirituale e corporeo ossia, come si diceva, ritenevano di poter inserire gli animali nella sfera della considerazione morale senza mettere in questione lo statuto dell’umano. Al contrario, la “grande” tradizione filosofica continentale, da Platone a Heidegger, pensa di poter parlare dell’umano “fingendo” che l’animale non esista o che esista solo come referente negativo sul quale l’umano si costituisce dopo averlo dismesso. Esistono, però, autori continentali che si smarcano da questa prospettiva (penso soprattutto a Nietzsche, Adorno, Derrida e Deleuze) che, affrontando radicalmente il senso dell’opposizione umano/non umano, forniscono solide basi per una “riabilitazione” dell’animalità che investa nel profondo anche ciò che si dice “umano”. Purtroppo, però, quest’altra linea di pensiero sembra dimenticarsi del dolore presente, non offrendo così proposte etico-politiche alla “questione animale” o, nel momento in cui lo fa, queste sono così “deboli” da essere prive di conseguenze pratiche o addirittura contraddittorie rispetto alla precedente decostruzione dell’antropocentrismo. Uno degli aspetti di questo libro, forse uno dei più importanti, è proprio quello di cercare di far dialogare queste due tradizioni di pensiero, cercando da un lato di “fondare” l’animalismo su solide basi filosofiche senza togliergli, dall’altra, il suo “mordente” sociale.


Ho individuato alcune parole chiave nel tuo libro, ad esempio, “inumano”, “sacro”, “aporia”, “linguaggio”. Puoi mostrarci brevemente come questi termini apparentemente lontani siano in realtà connessi tra loro?
Le parole chiave da te individuate sono in effetti le parole chiave del libro, ne costituiscono l’innervatura, lo scheletro e il tessuto connettivo. Proprio per questo è difficile mostrare come siano tra loro interconnesse: se davvero dovessi farlo dovrei riscrivere tutto il libro. Ma, in questo caso, non potrei essere breve! Proverò un’altra strada, forse, un po’ oscura, ma spero suggestiva per sollecitare alla lettura del saggio. “In-umano” è un modo di avvicinarsi e concepire l’umano senza rigettarlo, un modo, come scrivo, per cominciare a pensare ad un racconto più benigno dell’umano. In-umano significa provare ad intessere un discorso intorno all’umano – quindi non un altro discorso dell’uomo sull’uomo – che riconosca che non esiste un proprio dell’umano, che questo è preceduto, attraversato e sopravanzato, dal mostruosamente Altro, da ciò che tradizionalmente abbiamo considerato come il più improprio: gli animali e la morte, appunto. Se l’umano è letteralmente “parassitato” e “contagiato” dal non umano, si apre lo spazio di pensabilità per un nuovo concetto di “sacro”, dove ciò che conta non è più solo ed esclusivamente la nostra vita dal concepimento alla morte “naturale, il tutto a spese della vita degli altri, ma piuttosto la sacralità di quel piano di immanenza, che genericamente chiamiamo “vita” e che, forse, dovrebbe essere declinato come “con-fine”, con-finitezza e con-finitudine – un modo più benigno per dire “confine”. Un sacro quindi che, riconosciuta l’inestricabile “ragnatela” del “tra” delle vite, non si fondi più sul sacrificio ma piuttosto su un sostare paziente e pacificato. E qui interviene il termine “aporia” che è l’accettazione dell’impossibilità del nostro pensiero di risolvere tutte le contraddizioni che, necessariamente, richiama quello di “perire”, che non significa solo “morire”, ma anche “per-ire”, in questo senso, “per-ire” è illuminante nello stesso modo in cui lo è la luce, che rende possibile la visione, restando essa stessa impercettibile – ossia girare intorno, sostando in un luogo, luogo dove si cammina, si passa e si tra-passa. Credo che a questo punto ci sia poco da aggiungere sulla parola chiave “linguaggio”. Il nostro linguaggio è formato dallo specismo, intriso di specismo e retroagisce sul nostro modo di pensare radicalizzando l’esclusione dell’animale: non a caso il linguaggio ha spesso costituito quel confine insuperabile che abbiamo posto tra noi e il resto del vivente, non a caso esso si è spesso dato come una forma laica di immortalità. Da qui la difficoltà di affrontare i temi di cui abbiamo discusso con il linguaggio che abbiamo a disposizione, da qui la necessità di trovare “inciampi” nel linguaggio che gli facciano restituire la voce animale e mortale che esso tenta di occultare ma che è ancora lì presente e aspetta di essere riportata alla luce.


Cosa ti auspichi in futuro per gli animali ...e per gli umani?
Certamente mi auspico per entrambi un futuro liberato, privo di oppressione, sfruttamento e violenza istituzionalizzata. Ma non chiedermi di più, non chiedermi, come direbbe Montale, “la parola che squadri da ogni lato”. Seguendo, infatti i pensatori della Scuola di Francoforte, poiché la liberazione deve essere realizzata nell’ambito del processo storico da parte di soggetti intrecciati alla dissoluzione della società di cui essi stessi sono parte, non è possibile fornire orientamenti concreti per l’azione sociale. Come afferma Horkheimer: “Si può dire che cos’è male nella società data, ma è impossibile dire quale sarebbe [...] il bene, si può solo lavorare perché il male infine scompaia”. Il che non è poi molto diverso da quanto sostiene anche Günther Anders: “Liberarsi dell’infelicità che può essere eliminata è più urgente della discussione sulla felicità”. Anzi, a ben vedere, “la discussione sulla felicità” è la modalità con cui l’esistente, distogliendo l’attenzione dall’“infelicità che può essere eliminata”, perpetua l’oppressione. Per dirla con Bloch, è nell’oscurità dell’istante vissuto che la funzione utopica, negando ciò che è, apre il cammino a ciò che può essere, sfuggendo all’immobilità del presente.


Un’ultima domanda. Personale ma in fondo connessa al tema fondante del tuo libro. Che rapporto hai tu con la morte? La dedica iniziale del tuo libro è commovente e misteriosa… ci sveli qualcosa?
Derrida afferma che all’animale non tanto abbiamo negato la facoltà di parlare quanto la possibilità di risponderci. E ciò che caratterizza la possibilità di rispondere è che questa preveda sempre la possibilità della non risposta, la possibilità di sottrarsi alla domanda: se dovessimo rispondere sempre, infatti, non risponderemmo nel senso di “rispondere a” e di “rispondere di”, ma avremmo a che fare con degli automatismi. Ecco, mi piace concludere questa intervista non rispondendo alla prima delle due ultime domande e lasciando almeno parzialmente intatto il mistero della dedica. Posso solo dirti che si tratta di un cane femmina che ho incontrato per caso, dopo che verosimilmente era stata abbandonata, un agosto di tanti anni fa che ho amato profondamente, con la quale ho condiviso un lungo tratto della mia vita e che è morta, insegnandomi molto, nei mesi in cui stavo scrivendo questo saggio. Spero con questo di non aver svelato troppo il mistero di questa dedica, perché svelare i misteri, non esitare là dove gli angeli lo farebbero, è parte di proprio di quella hybris umana da cui qui si vorrebbe prender congedo.

sabato 29 maggio 2010

Narcisismo. Intervista

(apparso su Agora Vox del 29 Maggio 2010)

Ho avuto il piacere di essere intervistato da Damiano Mazzotti riguardo il lavoro svolto con RifaJ. Ecco come è andata.

Puoi raccontarmi come è nato il suo amore per la filosofia?
Non è semplice rispondere a questa domanda. Ero in quarto superiore al liceo classico Cutelli di Catania e la mia insegnante di filosofia era una vecchia senza interessi, di poca cultura e di scarso valore pedagogico. Sentivo, tuttavia, che la filosofia era molto di più di quello che lei ci faceva passare. Mio padre teneva nella sua libreria alcuni libri di filosofia e, tra questi, scelsi di leggere Walden di Thoreau, Il mondo di Sofia di Gaarder e Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig. Qualcosa dentro di me era cambiato, ero pronto per intraprendere un nuovo cammino. Quel cammino che mi ha portato poi a Milano a studiare filosofia con indirizzo logico ed epistemologico. L’amore per la filosofia analitica è nato dopo, con il mio primo esame di filosofia del linguaggio.

Come impiega il suo tempo libero e quali sono gli interessi culturali di un filosofo analitico?

Innanzitutto, va precisato che io non sono un filosofo analitico, ma ambisco ad esserlo. In questo momento studio per potermi un giorno definire tale (e speriamo di riuscirci). Il mio tempo libero è tutto per Flaminia, la mia ragazza. La Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior toglie molto tempo e mi è costata (a me e a tutti i ragazzi del gruppo) fatica mica da poco. Poi scrivere recensioni per Mangialibri, lavorare per Inkoj (un’altra rivista accademica), organizzare insieme ad altri il nostro seminario permanente di etica e animalismo e scrivere articoli per altre riviste sono, tutti insieme, impegni che accoppiati allo studio per la seconda laurea (il master in scienze filosofiche) di tempo ne lasciano ben poco.

Attualmente di cosa si occupa?

Mi sono laureato in Filosofia del Linguaggio con Elisa Paganini, la mia tesi prendeva in esame la formazione spontanea di una nuova lingua naturale concentrandosi, nella fattispecie, sul caso delle lingue Pidgin e Creole. Semplificando molto. Come da un protolinguaggio nato per situazioni di contatto forzato, nascano lingue potenti (Creole) quanto le altre lingue naturali umane come Italiano, Inglese e compagnia bella. Adesso sto finendo gli esami della specialistica, mi laureerò con Alessandro Zucchi. Ho proposto al mio relatore una tesi sul funzionamento logico dei condizionali e, nello specifico, su quelli che fanno uso di “Anche se...”. Sembra strano a sentirlo per la prima volta ma dietro i condizionali, ahinoi, si cela un mondo complesso di problemi e questioni logico – filosofiche. Non so ancora se accetterà il lavoro, vedremo.

La filosofia analitica potrebbe considerarsi come una specie di psicoanalisi linguistica della filosofia?

No, assolutamente. Però è comprensibile ad una prima analisi la domanda e i due termini possono essere, naturalmente, messi in relazione. Con l’espressione “filosofia analitica” ci si riferisce ad una corrente di pensiero sviluppatasi a partire dagli inizi del secolo scorso. Filosofi come Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein, George Edward Moore e Glottob Frege possono essere visti, di diritto, come alcuni dei padri fondatori di questo stile filosofico. Ciò che contraddistingue la filosofia analitica non è un insieme di tesi o convinzioni ma un metodo di cui alcuni capi saldi sono rintracciabili nell’argomentazione, nell’utilizzo della logica formale, nel rispetto per i risultati delle scienze naturali e nel valore del senso comune e delle intuizioni.

Quanto spazio riservate alla Filosofia della Scienza e che importanza ha questa disciplina nei confronti delle altre discipline e della società della conoscenza?

La filosofia della scienza è una disciplina che ha, come da manifesto, lo stesso spazio delle altre che compongono il complesso “puzzle” della filosofia analitica. Essa è la branca della filosofia che studia i fondamenti, gli assunti e le implicazioni della scienza, sia riguardo alla logica - matematica che alle scienze naturali, come la fisica o la chimica, sia riguardo alle scienze sociali, come la psicologia, l’economia o la giurisprudenza. L’obiettivo – complesso - della filosofia della scienza è quello di spiegare la natura prima dei concetti e delle asserzioni scientifiche. Direi dunque che l’importanza dentro quella che lei definisce, giustamente, società della conoscenza, e molta ma come spesso capita il giudizio degli incolti è deleterio; giudicando il lavoro dell’epistemologo come quello di un venditore di fumo.

La nascita della vostra rivista conferma che anche la filosofia si sta aprendo nella direzione di modelli “open source” e di contributi partecipativi sempre più sostanziosi. Mi può citare l’articolo più significativo fino a questo momento?

Ettore, io e gli altri ragazzi del gruppo abbiamo pensato sin da subito di garantire a tutti la possibilità di visualizzare i nostri contenuti in “open source” secondo il principio che diffondere la conoscenza è forse il primo vero compito del filosofo e della filosofia. Purtroppo la maggior parte delle riviste scientifiche rende i suoi contributi consultabili solo a pagamento e questo, noi delle redazione, ma credo di parlare a nomi di molti, lo riteniamo sbagliato. L’articolo più significativo… mah, io ho letto con molto piacere quello di Alessandra Galbusera dedicato a Magritte ma è una questione di gusti. Paolo Nori, scrittore che non ha bisogno di presentazioni, ci ha donato un suo pezzo. Personalmente lo consiglio a tutti.

E adesso, siccome l’Italia è diventata la Repubblica del Pettegolezzo, passo al gossip filosofico e ti chiedo cosa ne pensi di Stefano Moriggi, un filosofo della scienza quasi giovane…

Quando ho seguito il mio primo corso di Logica, il terzo modulo dedicato alla filosofia della scienza era tenuto, in parte da Giorello e in parte proprio

Moriggi. Non lo conosco abbastanza da poter giudicare e credo di non esserne neanche in grado. La mia opinione è che sia un bravo filosofo della scienza e che si dedichi con particolare attenzione alla divulgazione più che alla ricerca. Ma ripeto la mia impressione nel giudicare uno più grande e preparato di me, come dire, ha poca importanza.

Infine ti faccio la classica domanda di rito: puoi dare a nostri interlettori qualche importante anticipazione sui tuoi e sui vostri progetti futuri?

Tutti i ragazzi del gruppo di RifaJ hanno ambizioni che ci porteranno ad intraprendere concorsi finalizzati alla ricerca nel mondo dell’università e dell’editoria. La situazione in Italia non è molto buona ma siamo speranzosi. Per novembre dobbiamo finire il nuovo numero della rivista dedicata al tema “Argomentazione”. Poi ognuno di noi ha i suoi impegni, i miei sono quelli di laurearmi e preparare le carte per un dottorato, mi piacerebbe rimanere a Milano e lavorare con il mio attuale relatore. Spero inoltre che il mio attuale lavoro nelle varie riviste possa un giorno concretizzarsi in qualcosa che mi dia, perché no, anche una pagnotta da portare a casa. Poi c’è il sogno di aprire, con Ettore, una libreria anarchica con annessi, centro culturale e ristorazione vegana… ma questa è un’altra storia.

giovedì 27 maggio 2010

Intervista a Paolo Nori


Apparso sul suo sito

1) Qual è la situazione odierna della letteratura italiana? Quali autori non troppo noti ti sentiresti di annoverare nel “paradiso dei meritevoli”?

Della situazione odierna della letteratura italiana non ho un’idea molto precisa. Esce tanta roba e faccio fatica a leggere anche le cose che vorrei leggere. Mi succede spesso di consigliare i libri di Ugo Cornia e Daniele Benati.

2) Leggi i giornali? Come siamo messi secondo te a “libertà d’informazione”?

Non li leggo quasi mai. Per via della libertà, io ho l’impressione che la libertà dipenda da ciascuno di noi, che sia una specie di sentimento individuale che qualcuno ce l’ha, qualcuno no. L’idea di informazione, invece, non ce l’ho molto chiara. Se essere informati significa leggere i giornali, io devo dire che, quasi sempre, mi trovo meglio a essere disinformato.

3) Facci da oracolo… la “crisi”. Che è sta crisi?

In Padri e figli, di Turgenev, c’è questo passo:
Ma pensa! – disse Bazarov, – cosa significano le parole! L’ha trovata, ha detto: «crisi» e si è consolato. È stupefacente, come l’uomo creda ancora nelle parole. Gli dicono, per esempio, che è un coglione e non lo picchiano, si rattrista: lo chiamano intelligentone e non gli danno un soldo, prova piacere.

4) Quando hai iniziato davvero a scrivere storie?

Nel 1996.

5) Perché il tuo scrivere si ripropone come un linguaggio parlato? Che effetto ha tutto questo?

A un certo punto, mi è sembrato che le cose che mi succedevano intorno, le frasi che sentivo al bar, sotto casa, sugli autobus, potessero entrare nelle cose che scrivevo, e che l’idea di lingua letteraria, che era quello che cercavo fino ad allora, fosse una specie di fantasma incorporeo, rispetto alla lingua concreta che usavo e sentivo usare tutti i giorni.

6) Ti sto facendo domande del cazzo?

Questa non mi piace tanto.

7) Cosa consiglieresti ad un autore emergente per superare la sua condizione di “emergente”?

Quando studiavo russo, c’era un’insegnante che diceva: Per parlare russo bisogna parlare russo.

8) Come fai a farti cagare da un grande editore?

Mi sembra che siano cose che succedono.

9) A te come ti hanno cagato?

Ho pubblicato due libri con due editori piccoli.

10) Ultima domanda. Chi è in tre parole … Paolo Nori? (non valgono “sole”, “cuore” e “amore”)

Non lo so.

lunedì 12 aprile 2010

Indipendentemente da tutto, io l'ho intervistata.

Da Mangialibri: http://www.mangialibri.com/node/6193
Leonardo Caffo

Margherita è la prova vivente che si possono fare mille cose contemporaneamente, e tutte bene. Giornalista, scrive di salute sul Corriere della Sera, è un'esperta di Bioetica e di tecnica della divulgazione scientifica, e last but not least saggista di successo. L'ho incontrata alla libreria Mondadori di Piazza Duomo a Milano, dove presentava il suo ultimo libro sul tema delle malattie rare.
Hai scritto un libro che si intitola Mucca Pazza concentrandoti sulle conseguenze per la salute dei consumatori. Pensi che ridurre o addirittura eliminare il consumo della carne possa risolvere problemi come questo o come la più recente aviaria?
No, anzi. Il complesso sistema creato dalla Mucca Pazza ha solo contribuito al business della carne e lo stesso vale per l'aviaria. Il problema centrale sta nella cattiva informazione e non nell'oggetto di consumo. Sul consumo della carne in generale esistono grandi personaggi, come Veronesi, che si schierano contro ma non credo abbia nulla a che fare con questioni come Mucca Pazza e Aviaria.

Come esperta di Bioetica cose ne pensi della questione animale? La Bioetica è solo “antropoetica” o può accogliere nella sua estensione qualsiasi forma vivente?
Assolutamente. Oggi più che mai la Bioetica è aperta a qualsiasi forma vivete siano questi cavalli, cani, delfini etc... La riflessione sulla vita coinvolge un target molto più ampio del solo genere umano.

Oltre a scrivere di Bioetica, salute e medicina sul corriere, ti occupi di tecnica della comunicazione scientifica. Credi che l’Italia sia davvero rallentata nel progresso scientifico dalle ingerenze del Vaticano? Oppure credi che questa domanda nasca solo da una propaganda antiecclesiastica?
Mi sembra ovvio vedere nel Vaticano un ostacolo al progresso scientifico. Credo che la stessa collocazione geografica della santa sede in Italia abbia bloccato l'evolversi della tecnica in generale e della medicina in particolare. Basti pensare alle occasioni perse con le cellule staminale o la ricerca embrionale.

Il 28 Gennaio 2005 scrivi sul corriere un articolo che s’intitolava cosi: “Il cattolico: non sono sicuro che ci sia un diritto alla vita. Il laico: la scelta è del padre” (peraltro reperibile sul sito italiano per la Filosofia). Qui discutevi quanto sia legittimo scegliere o meno per la vita di un altro anche in relazione alle malformazioni. Lucrezio, riprendendo Epicuro, diceva che la vita non sempre va conservata. Tu cosa ne pensi?
Sono ovviamente d'accordo con Lucrezio. Nonostante questo nessuno ha il diritto di togliersi la vita come e quando gli pare, familiari, amici e parenti ne soffrirebbero troppo. Il suicidio può risultare un atto egoista. Comunque d'accordo su un punto, la vita non sempre va conservata.

Perché interessarsi di Bioetica e perché, nello specifico, di malattie rare? Qual è il reale riferimento del “noi” nel tuo libro Noi, quelli delle malattie rare? Ti riferisci anche ai familiari dei malati?
Le malattie rare sono fondamentali per uno studioso di Bioetica. La storia di queste persone e commovente e spesso ignorata. Il libro è una rivendicazione rispetto al precedente Siamo solo noi. Ovviamente come hai capito, mi riferisco anche alle famiglie, che svolgono un ruolo fondamentale.

Che differenza c'è nello scrivere libri e nello scrivere articoli?
Nel mio caso nessuna! Sono una giornalista e rimango tale in qualsiasi contesto scrivo. Ho a cuore la divulgazione delle informazioni e svolgo sempre questo compito.

Un’ultima domanda. Tra i lettori di Mangialibri e in generale tra i lettori di libri una gran parte sono giovani. Pensi che l’Italia possa offrire qualcosa a questi giovani che vogliono lavorare nel campo della cultura e della diffusione della conoscenza? Ti va, a tal proposito, di fornirci anche una tua riflessione sull’università italiana?
Oggi voi giovani dovete sfruttare l'on-line abbandonando pian piano il cartaceo che invece ha caratterizzato la mia generazione, quella dei cinquantenni. Una testata giornalistica on-line è la nuova frontiera dell'informazione. Per quanto riguarda l'università: ragazzi, scegliete qualcosa di pratico e accantonate le vostre passioni, altrimenti scordatevi di lavorare. E' triste, ma questa è l'Italia.

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sabato 3 aprile 2010

L'intervista (falsa) scomparsa. La solita porcata di Belpietro


«Obama? Una grandissima delusione. Sono stato fra i primi a credere in lui, ad appoggiarlo, ma adesso devo confessare che mi è diventato perfino antipatico». Philip Roth, forse il più illustre dei narratori americani d’oggi, autore di capolavori quali Lamento di Portnoy, Pastorale americana, Zuckerman scatenato e, da poco uscito in Italia, Indignazione, esprime con forza, per la prima volta, il suo giudizio fortemente negativo sull’attuale Presidente Usa. Ci tiene a farlo subito, nella nostra conversazione telefonica.

Quando lo si ascolta parlare, con quella sua voce bassa e appena rauca, in cui le parole escono a ritmo ora velocissimo ora esitante, con quel tono malinconico, inquieto, ma capace d’improvvise, fulminanti, accensioni d’ironia, sembra davvero di essere dentro una delle pagine dei suoi romanzi. È come se quella, proprio quella fosse la voce di tanti personaggi di Philip Roth.

«Arrivato a settantasette anni - spiega - mi piace parlare della realtà che ho attorno, una realtà che mi fa arrabbiare ma che mi interessa ogni giorno di più». E premette che non dirà molto sulla letteratura: «La letteratura mi è indispensabile, è la mia vita, ma non so cosa dirne, ogni discorso sui libri mi sembra superficiale, stupido, e molto noioso».

Parliamo subito di Obama, allora. Perché tanta delusione?

«Perché non ha fatto nulla, in questo primo anno, nulla di rilevante, nulla di diverso da quello che la banale quotidianità del potere lo portava a fare. Si dirà: la riforma sanitaria. Ebbene, quella è un’ottima novità per l’America, ma non basta. Sembra una bandiera sventolata per mascherare il nulla, perché i risultati di questa presidenza per ora sono il nulla».

Lei è stato un acceso sostenitore dell’elezione di questo Presidente…

«Sì, perché nella sua campagna elettorale c’era davvero qualcosa di nuovo, di straordinario. Con quelle sue espressioni “hope” e “change”, ripetute con un’efficacia mai vista, a metà fra il moderno slogan pubblicitario e la cantilena d’uno sciamano, Obama era riuscito a svegliare l’America dal torpore della sua frustrazione, da quel grande senso di impotenza, di ansia, di sfiducia che nell’ultimo decennio ha dominato il Paese. Era stato capace di dare vitalità e slancio a chi lo ascoltava. Non nascondo di essere rimasto quasi incantato a seguire i suoi discorsi, io che non sono certo facile ad entusiasmarmi per le parole… Allora ho creduto, e con me tantissimi americani, che fosse arrivato davvero un tempo nuovo per la politica, un tempo dove creatività e intelligenza si unissero alla capacità di ascoltare la voce di un Paese e di sapervi rispondere».

E invece?

«Invece, niente. Appena eletto, fin dai primi giorni del suo lavoro alla Casa Bianca, Obama si è come fermato, addormentato. Lui, che aveva scosso l’America, si è assopito nei meccanismi del potere. Ha continuato a ripetere le sue frasi più belle della campagna elettorale, ma non ha aggiunto nulla di nuovo, e soprattutto, non ha fatto seguire le azioni. Forse ha cominciato a pesare la sua inesperienza, forse è restato prigioniero di una eccessiva valutazione che la gente aveva di lui. Di fatto, i suoi discorsi hanno preso a girare a vuoto, sempre uguali, accompagnati da gesti, sguardi e sorrisi ormai ripetuti ossessivamente, che prima lo hanno reso simpatico e ora lo rendono fastidioso, quasi antipatico. E i risultati si vedono».

Quali risultati?

«L’America è confusa, frustrata. Quel diffuso senso di paura dell’ignoto, di ansia, di impotenza che l’11 settembre ha contribuito in modo decisivo a scatenare, lacerando le certezze, devastando insieme alle torri di New York anche la percezione che il Paese aveva di sé e della propria forza, è rimasto. Anzi, la crisi economica, figlia in qualche modo di quell’insicurezza, di quella sfiducia che regnano nelle persone, ha addirittura peggiorato le cose».

Obama ha deluso anche in politica estera?

«Sì. Con Bush vigeva la logica dell’intervento militare, della lotta contro il terrorismo fatta con le invasioni militari. Una logica a mio avviso sbagliata, e che si è dimostrata perdente. Ma almeno, chiara. Quale è la strategia di Obama? Nessuno ancora lo sa. Parla di dialogo, e va benissimo. Ma di fatto Al Qaeda è sempre più forte e organizzata, un regime pericoloso e delirante come quello iraniano sta attrezzandosi con l’arma nucleare e si attrezza per colpire Israele, e lui, il presidente, sembra eludere il problema. Con l’Iran un giorno sembra voler aprire una trattativa (ma non si può aprire una trattativa con chi è, in tante cose, l’erede dei nazisti!), e il giorno dopo riafferma la necessità della fermezza. Cosa vuole fare in Afghanistan? Nuove truppe o disimpegno? Approva e sostiene il governo israeliano o sta dando ragione ai palestinesi? Impossibile rispondere. Ma un dato di fatto è certo, e Obama mostra di non tenerne conto».

Cioè?

«Cioè che, come l’11 settembre ha dimostrato, oggi il nemico vero, paragonabile al nazismo degli anni Trenta, è l’estremismo religioso e sanguinario, il terrorismo soprattutto di matrice islamica. A mio avviso, il dialogo non serve. E con chi si dialogherebbe, del resto? Ma nemmeno serve, come faceva l’amministrazione Bush, invadere Stati, intervenire militarmente. Serve, piuttosto, un sostegno effettivo a quelle forze che, all’interno dei Paesi dove il fondamentalismo è più forte o dove è addirittura regime al potere, si battono per contrastarlo. E, insieme, dare più forza, poteri e credibilità all’Onu, riformandolo completamente. Quello che è meno utile, è questa confusione, questa assenza di una linea chiara nella politica estera americana: questo fa contenti gli oltranzisti e i terroristi, indebolisce chi vi si oppone, e, a livello interno, fa sentire l’America sempre più sbandata, sempre più cupa».

Come vede l’Europa?

«Politicamente, mi sembra che l’Europa non ci sia, non decida nulla, non conti nulla. L’Europa è la sua cultura, la sua storia. E di questa cultura, di questa storia, dovrebbe essere più fiera, mantenendo una sua peculiarità, una sua autenticità, senza diventare, chissà poi perché, seguace di mode e modelli che vengono da fuori. A me, come americano, l’Europa piace e incanta se è sé stessa, non una mal riuscita imitazione dell’America».

Capisco la sua volontà di non parlare di letteratura. Ma non resisto. Posso chiederle chi sono, oggi, i suoi autori preferiti?

«Sto rileggendo Singer, e lo trovo sempre più grande. Splendido e tristissimo. Ma non mi chieda di più».

Chi riconosce come suo maestro?

«Ecco, mi aspettavo la domanda. Il problema è che, quando scrivo, la scrittura nasce da un’esigenza di raccontare, troppo forte per essere frenata anche se a volte mi capita di fermarmi, di non riuscire ad andare avanti, di sentire che tutto è finito, che l’angoscia che ho dentro non lascia più posto alle storie, che le storie possibili sono state tutte uccise, costrette a non esistere, a non nascere. Quando attraverso quei momenti, e negli anni sono diventati più frequenti, a volte basta la frase di un romanzo che mi torna alla mente, la battuta di un personaggio in un libro, per tirarmi fuori dal buio, per ridarmi la possibilità e la capacità di scrivere. Ecco: l’autore di quella frase, di quella battuta, è in quel momento il mio indispensabile maestro. Un momento può essere Cechov, un altro Saul Bellow, un altro ancora, appunto, Singer. Posso risponderle solo così».

E Bernard Malamud?

«Riconosco di dovergli molto. È un autore che talvolta, a leggerlo, lascia senza fiato. Cosa gli devo e perché, lo lascio dire ai critici. Loro scoprono cose straordinarie, di cui noi autori neppure ci accorgiamo…».

Lei è da anni candidato al Nobel. Ma il premio non è mai arrivato. Come giudica questa ripetuta esclusione?

«Non ritengo che il mio pessimismo, la mia indignazione, la mia rabbia siano da Nobel, gli accademici svedesi hanno altri gusti, altri parametri… Ognuno fa le scelte che vuole, e non sono certo io a giudicarle giuste o sbagliate. Se cambieranno idea, andrò a Stoccolma e sarò contento di ricevere il premio. Però mi creda: non ci penso mai, anzi, questo diluvio di ipotesi che ogni anno mi arriva addosso con i primi freddi dell’autunno mi disturba non poco, non sopporto questo gioco delle candidature. Diano il Nobel a chi vogliono e basta così».