
sabato 2 aprile 2011
Un'intervista

domenica 15 agosto 2010
Intervista a Giorgio Fontana
Nasce a Saronno nel 1981 e vive in giro qua e la tra l’Italia e l’estero. Ha pubblicato due romanzi: Buoni propositi per l’anno nuovo (Mondadori 2007) e Novalis (Marsilio 2008). Con il reportage narrativo Babele 56 (Terre di Mezzo 2008) è stato finalista al Premio Tondelli 2009. Dal 2008 collabora stabilmente con la pagina di cultura de Ilsole24ore.com, e con “Terre di Mezzo“; scrive anche su Wired.it. Si è laureato in filosofia a Milano e fa molte altre cose per cui vi rimando al suo sito ma, prevalentemente, Giorgio Fontana è uno scrittore e qui su Caosmo, potete godervi quest’intervista.
1) So che sei laureato in filosofia e che avresti voluto continuare a fare ricerca, come mai la cosa si è spenta li?
1) Non avevo santi in paradiso, ma ci ho provato comunque. Negli anni ho vinto sette posti di dottorato, ma tutti e sette senza borsa (quattro in Canada, due in Francia e uno in Italia). Siccome per me fare ricerca significa lavorare dieci-dodici ore al giorno, non avevo intenzione di fare un dottorato male lavorando per mantenermi: tanto più che avrei continuato a scrivere narrativa. Quindi meglio lasciar perdere e lavorare punto.
2) Su cosa ti sei laureato?
2) Sul concetto di “mondo” nel realismo interno di Hilary Putnam. Mi interesso di epistemologia analitica, teorie degli a priori, dibattito realismo/antirealismo eccetera.
3) I tuoi studi hanno influito nella tua attività da scrittore?
3) Moltissimo.
4) Quando e come si diventa scrittori, e non dico nel senso “privato” ma in quello che poi, burocraticamente, ti rende tale?
4) Mah, direi quando si pubblica un libro (aggiungerei: per una casa editrice non a pagamento). Il punto però è fare in modo che questo evento – la “consacrazione pubblica” come scrittore – non sia fine a se stesso. Al di là della burocrazia, uno scrittore è qualcuno che rende pubbliche (appunto) le sue parole. E credo ci si debba sempre porre la domanda: ne vale la pena? Ne vale davvero la pena? Ho realmente qualcosa da dire?
5) Come nasce l’idea di “Novalis”, che cos’è, in soldoni, l’arte estrema?
5) Stavo gironzolando in biblioteca a Saronno, poco dopo la laurea, e dal nulla mi è venuta l’idea. Non so proprio da dove sia saltata fuori. Non sono un patito di arte estrema né ho letto libri che possano avermi influenzato al riguardo. Mistero.
6) Come e quando hai iniziato a collaborare con grandi nomi dell’editoria come il Sole24 ore?
6) Il caporedattore della cultura online mi ha telefonato un giorno. Aveva letto qualche mio pezzo sulla rete, curiosato sul mio sito, e mi ha chiesto se volessi scrivere per loro. Ovviamente ho accettato. Ma lui è una perla rara.
7) Progetti per il futuro prossimo?
7) Finire il nuovo romanzo, lavorare a un saggio, inaugurare una nuova rubrica sul mio sito, iniziare il romanzo successivo. Scrivere.
8) Quanto consiglieresti ad un ragazzo speranzoso di perseverare nel “sogno” di diventare scrittore?
8) Più che sperare, gli direi innanzitutto di lavorare duro e prepararsi alle inevitabili batoste del mestiere. Ma se crede realmente nelle sue parole, di perseverare al massimo e andare diritto come un treno.
9) E filosofo?
9) Idem, se per “filosofo” intendi fare ricerca in questo campo.
10) Come altri scrittori hai un blog, cosa pensi delle nuove normative del governo a tal proposito?
10) Grazie a Dio non sono ancora “normative” ma si tratta di un disegno di legge. In ogni caso, se venisse ratificato, le conseguenze per i blog sarebbero assurde. Il famoso comma 29, che costringe alla rettifica entro 48h (con sanzioni fino a 12.500 euro per mancato adempimento), non tiene conto del fatto che un blog non è una redazione, e un blogger non è (salvo eccezioni) un giornalista professionista. Se ricevo una notifica mentre sono in vacanza per una settimana e non controllo più né blog né mail, che faccio?
11) Credi che davvero “l’esterofilia” italiana porterà i giovani d’oggi ad occupazioni più dignitose? Non sarebbe meglio restare e lottare per il proprio paese?
11) Domanda difficile. Bisogna intendersi su cosa significa “lottare” e in che modo e con quali prospettive. Ci sto riflettendo su parecchio, ma preferisco non rispondere ora come ora. Rischierei di dire solo banalità.
12) Domanda banale ma te la becchi uguale. Definisciti in tre parole
12) Onesto, scrittore, al momento assai deluso.
13) Consigliaci un libro o/e un autore emergente?
13) Marco Missiroli, “Bianco” (Guanda).
14) Cosa vorresti vedere di diverso nell’editoria Italiana?
14) Più onestà intellettuale, più attenzione al percorso autoriale, e meno febbre del marketing. Va bene, siamo nell’era dell’industria culturale, il libro è un prodotto e tutto quello che volete: ma c’è un forte rischio di svilire la narrazione e l’idea stessa della storia. Ne parlavo qui.Quello che mi disgusta di più è la tendenza a giustificare tutto con il cinismo: in campo editoriale, ho avuto a che fare con persone veramente ciniche. E’ un brutto ambiente.
mercoledì 23 giugno 2010
Orgoglioso di questa intervista, davvero.
sabato 29 maggio 2010
Narcisismo. Intervista
Ettore, io e gli altri ragazzi del gruppo abbiamo pensato sin da subito di garantire a tutti la possibilità di visualizzare i nostri contenuti in “open source” secondo il principio che diffondere la conoscenza è forse il primo vero compito del filosofo e della filosofia. Purtroppo la maggior parte delle riviste scientifiche rende i suoi contributi consultabili solo a pagamento e questo, noi delle redazione, ma credo di parlare a nomi di molti, lo riteniamo sbagliato. L’articolo più significativo… mah, io ho letto con molto piacere quello di Alessandra Galbusera dedicato a Magritte ma è una questione di gusti. Paolo Nori, scrittore che non ha bisogno di presentazioni, ci ha donato un suo pezzo. Personalmente lo consiglio a tutti.
Quando ho seguito il mio primo corso di Logica, il terzo modulo dedicato alla filosofia della scienza era tenuto, in parte da Giorello e in parte proprio
Moriggi. Non lo conosco abbastanza da poter giudicare e credo di non esserne neanche in grado. La mia opinione è che sia un bravo filosofo della scienza e che si dedichi con particolare attenzione alla divulgazione più che alla ricerca. Ma ripeto la mia impressione nel giudicare uno più grande e preparato di me, come dire, ha poca importanza.
Tutti i ragazzi del gruppo di RifaJ hanno ambizioni che ci porteranno ad intraprendere concorsi finalizzati alla ricerca nel mondo dell’università e dell’editoria. La situazione in Italia non è molto buona ma siamo speranzosi. Per novembre dobbiamo finire il nuovo numero della rivista dedicata al tema “Argomentazione”. Poi ognuno di noi ha i suoi impegni, i miei sono quelli di laurearmi e preparare le carte per un dottorato, mi piacerebbe rimanere a Milano e lavorare con il mio attuale relatore. Spero inoltre che il mio attuale lavoro nelle varie riviste possa un giorno concretizzarsi in qualcosa che mi dia, perché no, anche una pagnotta da portare a casa. Poi c’è il sogno di aprire, con Ettore, una libreria anarchica con annessi, centro culturale e ristorazione vegana… ma questa è un’altra storia.
giovedì 27 maggio 2010
Intervista a Paolo Nori

lunedì 12 aprile 2010
Indipendentemente da tutto, io l'ho intervistata.

Margherita è la prova vivente che si possono fare mille cose contemporaneamente, e tutte bene. Giornalista, scrive di salute sul Corriere della Sera, è un'esperta di Bioetica e di tecnica della divulgazione scientifica, e last but not least saggista di successo. L'ho incontrata alla libreria Mondadori di Piazza Duomo a Milano, dove presentava il suo ultimo libro sul tema delle malattie rare.
Hai scritto un libro che si intitola Mucca Pazza concentrandoti sulle conseguenze per la salute dei consumatori. Pensi che ridurre o addirittura eliminare il consumo della carne possa risolvere problemi come questo o come la più recente aviaria?
No, anzi. Il complesso sistema creato dalla Mucca Pazza ha solo contribuito al business della carne e lo stesso vale per l'aviaria. Il problema centrale sta nella cattiva informazione e non nell'oggetto di consumo. Sul consumo della carne in generale esistono grandi personaggi, come Veronesi, che si schierano contro ma non credo abbia nulla a che fare con questioni come Mucca Pazza e Aviaria.
Come esperta di Bioetica cose ne pensi della questione animale? La Bioetica è solo “antropoetica” o può accogliere nella sua estensione qualsiasi forma vivente?
Assolutamente. Oggi più che mai la Bioetica è aperta a qualsiasi forma vivete siano questi cavalli, cani, delfini etc... La riflessione sulla vita coinvolge un target molto più ampio del solo genere umano.
Oltre a scrivere di Bioetica, salute e medicina sul corriere, ti occupi di tecnica della comunicazione scientifica. Credi che l’Italia sia davvero rallentata nel progresso scientifico dalle ingerenze del Vaticano? Oppure credi che questa domanda nasca solo da una propaganda antiecclesiastica?
Mi sembra ovvio vedere nel Vaticano un ostacolo al progresso scientifico. Credo che la stessa collocazione geografica della santa sede in Italia abbia bloccato l'evolversi della tecnica in generale e della medicina in particolare. Basti pensare alle occasioni perse con le cellule staminale o la ricerca embrionale.
Il 28 Gennaio 2005 scrivi sul corriere un articolo che s’intitolava cosi: “Il cattolico: non sono sicuro che ci sia un diritto alla vita. Il laico: la scelta è del padre” (peraltro reperibile sul sito italiano per la Filosofia). Qui discutevi quanto sia legittimo scegliere o meno per la vita di un altro anche in relazione alle malformazioni. Lucrezio, riprendendo Epicuro, diceva che la vita non sempre va conservata. Tu cosa ne pensi?
Sono ovviamente d'accordo con Lucrezio. Nonostante questo nessuno ha il diritto di togliersi la vita come e quando gli pare, familiari, amici e parenti ne soffrirebbero troppo. Il suicidio può risultare un atto egoista. Comunque d'accordo su un punto, la vita non sempre va conservata.
Perché interessarsi di Bioetica e perché, nello specifico, di malattie rare? Qual è il reale riferimento del “noi” nel tuo libro Noi, quelli delle malattie rare? Ti riferisci anche ai familiari dei malati?
Le malattie rare sono fondamentali per uno studioso di Bioetica. La storia di queste persone e commovente e spesso ignorata. Il libro è una rivendicazione rispetto al precedente Siamo solo noi. Ovviamente come hai capito, mi riferisco anche alle famiglie, che svolgono un ruolo fondamentale.
Che differenza c'è nello scrivere libri e nello scrivere articoli?
Nel mio caso nessuna! Sono una giornalista e rimango tale in qualsiasi contesto scrivo. Ho a cuore la divulgazione delle informazioni e svolgo sempre questo compito.
Un’ultima domanda. Tra i lettori di Mangialibri e in generale tra i lettori di libri una gran parte sono giovani. Pensi che l’Italia possa offrire qualcosa a questi giovani che vogliono lavorare nel campo della cultura e della diffusione della conoscenza? Ti va, a tal proposito, di fornirci anche una tua riflessione sull’università italiana?
Oggi voi giovani dovete sfruttare l'on-line abbandonando pian piano il cartaceo che invece ha caratterizzato la mia generazione, quella dei cinquantenni. Una testata giornalistica on-line è la nuova frontiera dell'informazione. Per quanto riguarda l'università: ragazzi, scegliete qualcosa di pratico e accantonate le vostre passioni, altrimenti scordatevi di lavorare. E' triste, ma questa è l'Italia.
sabato 3 aprile 2010
L'intervista (falsa) scomparsa. La solita porcata di Belpietro

Quando lo si ascolta parlare, con quella sua voce bassa e appena rauca, in cui le parole escono a ritmo ora velocissimo ora esitante, con quel tono malinconico, inquieto, ma capace d’improvvise, fulminanti, accensioni d’ironia, sembra davvero di essere dentro una delle pagine dei suoi romanzi. È come se quella, proprio quella fosse la voce di tanti personaggi di Philip Roth.
«Arrivato a settantasette anni - spiega - mi piace parlare della realtà che ho attorno, una realtà che mi fa arrabbiare ma che mi interessa ogni giorno di più». E premette che non dirà molto sulla letteratura: «La letteratura mi è indispensabile, è la mia vita, ma non so cosa dirne, ogni discorso sui libri mi sembra superficiale, stupido, e molto noioso».
Parliamo subito di Obama, allora. Perché tanta delusione?
«Perché non ha fatto nulla, in questo primo anno, nulla di rilevante, nulla di diverso da quello che la banale quotidianità del potere lo portava a fare. Si dirà: la riforma sanitaria. Ebbene, quella è un’ottima novità per l’America, ma non basta. Sembra una bandiera sventolata per mascherare il nulla, perché i risultati di questa presidenza per ora sono il nulla».
Lei è stato un acceso sostenitore dell’elezione di questo Presidente…
«Sì, perché nella sua campagna elettorale c’era davvero qualcosa di nuovo, di straordinario. Con quelle sue espressioni “hope” e “change”, ripetute con un’efficacia mai vista, a metà fra il moderno slogan pubblicitario e la cantilena d’uno sciamano, Obama era riuscito a svegliare l’America dal torpore della sua frustrazione, da quel grande senso di impotenza, di ansia, di sfiducia che nell’ultimo decennio ha dominato il Paese. Era stato capace di dare vitalità e slancio a chi lo ascoltava. Non nascondo di essere rimasto quasi incantato a seguire i suoi discorsi, io che non sono certo facile ad entusiasmarmi per le parole… Allora ho creduto, e con me tantissimi americani, che fosse arrivato davvero un tempo nuovo per la politica, un tempo dove creatività e intelligenza si unissero alla capacità di ascoltare la voce di un Paese e di sapervi rispondere».
E invece?
«Invece, niente. Appena eletto, fin dai primi giorni del suo lavoro alla Casa Bianca, Obama si è come fermato, addormentato. Lui, che aveva scosso l’America, si è assopito nei meccanismi del potere. Ha continuato a ripetere le sue frasi più belle della campagna elettorale, ma non ha aggiunto nulla di nuovo, e soprattutto, non ha fatto seguire le azioni. Forse ha cominciato a pesare la sua inesperienza, forse è restato prigioniero di una eccessiva valutazione che la gente aveva di lui. Di fatto, i suoi discorsi hanno preso a girare a vuoto, sempre uguali, accompagnati da gesti, sguardi e sorrisi ormai ripetuti ossessivamente, che prima lo hanno reso simpatico e ora lo rendono fastidioso, quasi antipatico. E i risultati si vedono».
Quali risultati?
«L’America è confusa, frustrata. Quel diffuso senso di paura dell’ignoto, di ansia, di impotenza che l’11 settembre ha contribuito in modo decisivo a scatenare, lacerando le certezze, devastando insieme alle torri di New York anche la percezione che il Paese aveva di sé e della propria forza, è rimasto. Anzi, la crisi economica, figlia in qualche modo di quell’insicurezza, di quella sfiducia che regnano nelle persone, ha addirittura peggiorato le cose».
Obama ha deluso anche in politica estera?
«Sì. Con Bush vigeva la logica dell’intervento militare, della lotta contro il terrorismo fatta con le invasioni militari. Una logica a mio avviso sbagliata, e che si è dimostrata perdente. Ma almeno, chiara. Quale è la strategia di Obama? Nessuno ancora lo sa. Parla di dialogo, e va benissimo. Ma di fatto Al Qaeda è sempre più forte e organizzata, un regime pericoloso e delirante come quello iraniano sta attrezzandosi con l’arma nucleare e si attrezza per colpire Israele, e lui, il presidente, sembra eludere il problema. Con l’Iran un giorno sembra voler aprire una trattativa (ma non si può aprire una trattativa con chi è, in tante cose, l’erede dei nazisti!), e il giorno dopo riafferma la necessità della fermezza. Cosa vuole fare in Afghanistan? Nuove truppe o disimpegno? Approva e sostiene il governo israeliano o sta dando ragione ai palestinesi? Impossibile rispondere. Ma un dato di fatto è certo, e Obama mostra di non tenerne conto».
Cioè?
«Cioè che, come l’11 settembre ha dimostrato, oggi il nemico vero, paragonabile al nazismo degli anni Trenta, è l’estremismo religioso e sanguinario, il terrorismo soprattutto di matrice islamica. A mio avviso, il dialogo non serve. E con chi si dialogherebbe, del resto? Ma nemmeno serve, come faceva l’amministrazione Bush, invadere Stati, intervenire militarmente. Serve, piuttosto, un sostegno effettivo a quelle forze che, all’interno dei Paesi dove il fondamentalismo è più forte o dove è addirittura regime al potere, si battono per contrastarlo. E, insieme, dare più forza, poteri e credibilità all’Onu, riformandolo completamente. Quello che è meno utile, è questa confusione, questa assenza di una linea chiara nella politica estera americana: questo fa contenti gli oltranzisti e i terroristi, indebolisce chi vi si oppone, e, a livello interno, fa sentire l’America sempre più sbandata, sempre più cupa».
Come vede l’Europa?
«Politicamente, mi sembra che l’Europa non ci sia, non decida nulla, non conti nulla. L’Europa è la sua cultura, la sua storia. E di questa cultura, di questa storia, dovrebbe essere più fiera, mantenendo una sua peculiarità, una sua autenticità, senza diventare, chissà poi perché, seguace di mode e modelli che vengono da fuori. A me, come americano, l’Europa piace e incanta se è sé stessa, non una mal riuscita imitazione dell’America».
Capisco la sua volontà di non parlare di letteratura. Ma non resisto. Posso chiederle chi sono, oggi, i suoi autori preferiti?
«Sto rileggendo Singer, e lo trovo sempre più grande. Splendido e tristissimo. Ma non mi chieda di più».
Chi riconosce come suo maestro?
«Ecco, mi aspettavo la domanda. Il problema è che, quando scrivo, la scrittura nasce da un’esigenza di raccontare, troppo forte per essere frenata anche se a volte mi capita di fermarmi, di non riuscire ad andare avanti, di sentire che tutto è finito, che l’angoscia che ho dentro non lascia più posto alle storie, che le storie possibili sono state tutte uccise, costrette a non esistere, a non nascere. Quando attraverso quei momenti, e negli anni sono diventati più frequenti, a volte basta la frase di un romanzo che mi torna alla mente, la battuta di un personaggio in un libro, per tirarmi fuori dal buio, per ridarmi la possibilità e la capacità di scrivere. Ecco: l’autore di quella frase, di quella battuta, è in quel momento il mio indispensabile maestro. Un momento può essere Cechov, un altro Saul Bellow, un altro ancora, appunto, Singer. Posso risponderle solo così».
E Bernard Malamud?
«Riconosco di dovergli molto. È un autore che talvolta, a leggerlo, lascia senza fiato. Cosa gli devo e perché, lo lascio dire ai critici. Loro scoprono cose straordinarie, di cui noi autori neppure ci accorgiamo…».
Lei è da anni candidato al Nobel. Ma il premio non è mai arrivato. Come giudica questa ripetuta esclusione?
«Non ritengo che il mio pessimismo, la mia indignazione, la mia rabbia siano da Nobel, gli accademici svedesi hanno altri gusti, altri parametri… Ognuno fa le scelte che vuole, e non sono certo io a giudicarle giuste o sbagliate. Se cambieranno idea, andrò a Stoccolma e sarò contento di ricevere il premio. Però mi creda: non ci penso mai, anzi, questo diluvio di ipotesi che ogni anno mi arriva addosso con i primi freddi dell’autunno mi disturba non poco, non sopporto questo gioco delle candidature. Diano il Nobel a chi vogliono e basta così».