
venerdì 15 aprile 2011
Vi parlo un po' di Sugaman

lunedì 11 aprile 2011
Un racconto per "Scritti Inediti"

Un mio racconto pubblicato da «Scritti inediti. Periodico di letteratura e arte inedite». Si chiama "Note al margine di un diario di bordo" ed è parte di un progetto più grande in costruzione, e lo trovate qui.
domenica 24 ottobre 2010
Presentazione Albergo di Adamo

Interverrano i curatori del testo, Massimo Filippi e Filippo Trasatti.
Per una recensione del testo clicca qui.
Per un intervista ad uno degli autori clicca qui.
Tutti gli interessati sono invitati a partecipare.
sabato 9 ottobre 2010
venerdì 10 settembre 2010
La fatica è compiuta, adesso burocrazia sia
giovedì 9 settembre 2010
Genius loci

Il libro è breve ma intenso. Una bibliografia molto esauriente raccoglie testi di filosofia come quelli di Paolo D'Angelo e testi di alta letteratura come quelli di Neruda. L'impronta autobiografica, come già detto, è presente ma non ingerente nel testo che risulta un quasi–saggio di filosofia del “buon costruire”. Le citazioni sono un po' troppo ammassate l'una sull'altra, in alcuni punti del libro si fatica a cogliere il pensiero dell'autore che sembra occupato più che altro a collezionare aforismi. Se cercate un libriccino leggero ma non banale e siete appassionati magari del pensiero che sta dietro l'eco–architettura, avete trovato ciò che fa per voi (ma senza pretese). Con questa mania del rapporto uomo–natura i libri validi sull'argomento si sono rarefatti notevolmente, districarsi tra gli scaffali non è facile. L'opera di Bevilacqua sta a metà tra la mania del parlare e il piacere del raccontare: alla vostra sensibilità personale la scelta della prospettiva.
domenica 15 agosto 2010
Intervista a Giorgio Fontana
Nasce a Saronno nel 1981 e vive in giro qua e la tra l’Italia e l’estero. Ha pubblicato due romanzi: Buoni propositi per l’anno nuovo (Mondadori 2007) e Novalis (Marsilio 2008). Con il reportage narrativo Babele 56 (Terre di Mezzo 2008) è stato finalista al Premio Tondelli 2009. Dal 2008 collabora stabilmente con la pagina di cultura de Ilsole24ore.com, e con “Terre di Mezzo“; scrive anche su Wired.it. Si è laureato in filosofia a Milano e fa molte altre cose per cui vi rimando al suo sito ma, prevalentemente, Giorgio Fontana è uno scrittore e qui su Caosmo, potete godervi quest’intervista.
1) So che sei laureato in filosofia e che avresti voluto continuare a fare ricerca, come mai la cosa si è spenta li?
1) Non avevo santi in paradiso, ma ci ho provato comunque. Negli anni ho vinto sette posti di dottorato, ma tutti e sette senza borsa (quattro in Canada, due in Francia e uno in Italia). Siccome per me fare ricerca significa lavorare dieci-dodici ore al giorno, non avevo intenzione di fare un dottorato male lavorando per mantenermi: tanto più che avrei continuato a scrivere narrativa. Quindi meglio lasciar perdere e lavorare punto.
2) Su cosa ti sei laureato?
2) Sul concetto di “mondo” nel realismo interno di Hilary Putnam. Mi interesso di epistemologia analitica, teorie degli a priori, dibattito realismo/antirealismo eccetera.
3) I tuoi studi hanno influito nella tua attività da scrittore?
3) Moltissimo.
4) Quando e come si diventa scrittori, e non dico nel senso “privato” ma in quello che poi, burocraticamente, ti rende tale?
4) Mah, direi quando si pubblica un libro (aggiungerei: per una casa editrice non a pagamento). Il punto però è fare in modo che questo evento – la “consacrazione pubblica” come scrittore – non sia fine a se stesso. Al di là della burocrazia, uno scrittore è qualcuno che rende pubbliche (appunto) le sue parole. E credo ci si debba sempre porre la domanda: ne vale la pena? Ne vale davvero la pena? Ho realmente qualcosa da dire?
5) Come nasce l’idea di “Novalis”, che cos’è, in soldoni, l’arte estrema?
5) Stavo gironzolando in biblioteca a Saronno, poco dopo la laurea, e dal nulla mi è venuta l’idea. Non so proprio da dove sia saltata fuori. Non sono un patito di arte estrema né ho letto libri che possano avermi influenzato al riguardo. Mistero.
6) Come e quando hai iniziato a collaborare con grandi nomi dell’editoria come il Sole24 ore?
6) Il caporedattore della cultura online mi ha telefonato un giorno. Aveva letto qualche mio pezzo sulla rete, curiosato sul mio sito, e mi ha chiesto se volessi scrivere per loro. Ovviamente ho accettato. Ma lui è una perla rara.
7) Progetti per il futuro prossimo?
7) Finire il nuovo romanzo, lavorare a un saggio, inaugurare una nuova rubrica sul mio sito, iniziare il romanzo successivo. Scrivere.
8) Quanto consiglieresti ad un ragazzo speranzoso di perseverare nel “sogno” di diventare scrittore?
8) Più che sperare, gli direi innanzitutto di lavorare duro e prepararsi alle inevitabili batoste del mestiere. Ma se crede realmente nelle sue parole, di perseverare al massimo e andare diritto come un treno.
9) E filosofo?
9) Idem, se per “filosofo” intendi fare ricerca in questo campo.
10) Come altri scrittori hai un blog, cosa pensi delle nuove normative del governo a tal proposito?
10) Grazie a Dio non sono ancora “normative” ma si tratta di un disegno di legge. In ogni caso, se venisse ratificato, le conseguenze per i blog sarebbero assurde. Il famoso comma 29, che costringe alla rettifica entro 48h (con sanzioni fino a 12.500 euro per mancato adempimento), non tiene conto del fatto che un blog non è una redazione, e un blogger non è (salvo eccezioni) un giornalista professionista. Se ricevo una notifica mentre sono in vacanza per una settimana e non controllo più né blog né mail, che faccio?
11) Credi che davvero “l’esterofilia” italiana porterà i giovani d’oggi ad occupazioni più dignitose? Non sarebbe meglio restare e lottare per il proprio paese?
11) Domanda difficile. Bisogna intendersi su cosa significa “lottare” e in che modo e con quali prospettive. Ci sto riflettendo su parecchio, ma preferisco non rispondere ora come ora. Rischierei di dire solo banalità.
12) Domanda banale ma te la becchi uguale. Definisciti in tre parole
12) Onesto, scrittore, al momento assai deluso.
13) Consigliaci un libro o/e un autore emergente?
13) Marco Missiroli, “Bianco” (Guanda).
14) Cosa vorresti vedere di diverso nell’editoria Italiana?
14) Più onestà intellettuale, più attenzione al percorso autoriale, e meno febbre del marketing. Va bene, siamo nell’era dell’industria culturale, il libro è un prodotto e tutto quello che volete: ma c’è un forte rischio di svilire la narrazione e l’idea stessa della storia. Ne parlavo qui.Quello che mi disgusta di più è la tendenza a giustificare tutto con il cinismo: in campo editoriale, ho avuto a che fare con persone veramente ciniche. E’ un brutto ambiente.
lunedì 14 giugno 2010
Pensieri, a Catania

giovedì 27 maggio 2010
Intervista a Paolo Nori

giovedì 29 aprile 2010
martedì 23 marzo 2010
mercoledì 10 marzo 2010
giovedì 11 febbraio 2010
sabato 30 gennaio 2010
Lettera dello "pseudo" Capriolo Zoppo al Presidente degli Stati Uniti d'America (1854)
mercoledì 2 dicembre 2009
"Make Belive". Alice come paradigma dei "fantastici" mondi possibili.

LO SPECCHIO
Una cosa era certa: che il micino bianco non c'entrava affatto: la colpa era tutta del nero. Durante l'ultimo quarto d'ora Dina, la gatta madre, aveva lavata la faccia al micino bianco (operazione che il micino dopo tutto, aveva sopportato con dignità); era quindi chiaro che esso non aveva potuto aver parte nel misfatto.
Il modo come Dina lavava la faccia ai figli era questo: prima teneva il poverino per l'orecchio con una zampa, e poi con l'altra gli stropicciava tutto quanto il muso, contro pelo, principiando dal naso; e proprio poco prima, come ho detto, era stata occupatissima col micino bianco, che se ne stava tranquillo e calmo tentando di far le fusa, certo col sentimento che tutto si faceva per il suo bene.
Ma il gattino nero era stato lavato prima in quel pomeriggio; e così, mentre Alice se ne stava rannicchiata in un cantuccio della maestosa poltrona, in una specie di dormiveglia, esso s'era dato a una gran partita di salti col gomitolo che Alice aveva pazientemente fatto dalla matassa di lana, rotolandolo su e giù finchè l'aveva tutto ingarbugliato. Ed ora ecco il gomitolo sparso sul tappeto tutto nodi e grovigli, col gattino in mezzo che cerca di acchiapparsi la coda.
- Ah, brutto micio - gridò Alice acchiappando il gattino e dandogli un bacio per fargli capire d'essere in collera. - Veramente Dina avrebbe dovuto insegnarti a essere più educato! Tu devi farlo, Dina, tu sai che devi farlo! - essa aggiunse, dando un'occhiata di rimprovero alla gatta madre, e parlando col suo miglior tono di disapprovazione. E poi, arrampicatasi di nuovo sulla poltrona, dopo aver preso con sè il gattino e la lana, cominciò a rifare il gomitolo. Ma andava innanzi lentamente, perchè nel frattempo chiacchierava, un po' per il gattino e un po' per sè. Sulle ginocchia di lei il micio sedeva in aria triste, fingendo di osservare il progresso del gomitolo e di tanto in tanto sporgendo una zampetta, e pianamente toccando la palla, come per dire che, potendo, avrebbe aiutato il lavoro volentieri.
- Sai che è domani, micino? - cominciò Alice. - Se fossi venuto alla finestra con me, tu l'avresti indovinato... Ma Dina ti lavava la faccia e non hai potuto. Io guardavo i ragazzi che raccoglievano le fascine e le frasche per la fiammata di carnevale. Ce ne vogliono molte di fascine, micino. Ma faceva tanto freddo e nevicava tanto, che dovettero andarsene. Non importa, micino, domani andremo a vedere la fiammata. - Qui Alice avvolse due o tre volte il filo intorno al collo del gattino, per vedervi l'effetto; ma nell'atto le sfuggì il gomitolo che rotolò sul pavimento, disfacendosi di nuovo per molti metri di filo.
- Sai, micino, io ero così arrabbiata, - continuò Alice, appena si furono riaccomodati sulla poltrona, - quando vidi tutto il danno che avevi fatto. Avrei quasi aperto la finestra per gettarti nella neve! E l'avresti meritato, brigantaccio! Che hai da dire? Non m'interrompere! - essa continuò, levando un dito. - Ora ti dirò tutte le tue cattive azioni. Prima: questa mattina, hai strillato due volte, mentre Dina ti lavava la faccia. E non puoi negarlo, micino, l'ho sentito io. Che cosa dici? (fingendo che il gatto abbia parlato) - Ch'essa t'aveva fatto entrar una zampa nell'occhio? Colpa tua, se tenevi gli occhi aperti: se li avessi tenuti ben chiusi, non sarebbe accaduto. Ora sono inutili le scuse, ascolta. Secondo: tu hai tirato Nevina per la coda mentre io le mettevo innanzi il tegame del latte. Che cosa? Avevi sete anche tu? Come sai che non fosse assetata anche lei? Terzo: hai disfatto il gomitolo mentre io guardavo da un'altra parte. Sono tre mancanze, Frufrù, e tu non hai avuto ancora nessun castigo. Tu sai che ti riserbo i castighi per mercoledì di quest'altra settimana. Immagina un po' se a me avessero riserbato tutti i castighi per un dato giorno? Quanto farebbero alla fine d'un anno? Credo che arrivato quel giorno, mi dovrebbero mandare in prigione. Supponendo anzi che ciascun castigo dovesse consistere nel rimanere senza desinare, allora, arrivato quel terribile giorno, dovrei fare a meno di cinquanta desinari in una volta sola. A dir la verità, non m'importerebbe molto. Sarei più contenta di rimaner digiuna che di mangiarli. «Senti la neve contro i vetri della finestra, Frufrù? Che suono dolce! Come se uno stesse baciando la finestra dal di fuori. Forse la neve vuol bene agli alberi e ai campi e li bacia così soavemente! E poi li copre ben bene, sai, con una coperta bianca, e forse dice: «Andate a letto, cari, andate a letto, cari!» E l'estate quando si svegliano, Frufrù, si vestono tutti di verde e si mettono a ballare... quando soffia il vento... Oh che bellezza! - esclama Alice, lasciando cadere il gomitolo di lana per battere le manine.
«E io desidererei tanto che fosse vero! Certo che i boschi par che dormano in autunno, quando ingialliscono le foglie.
«Frufrù, ti piace giocare a scacchi? Ora non ridere, caro, io te lo domando seriamente. Perchè, quando poco fa stavamo giocando, tu guardavi come se sapessi il giuoco; e quando ho detto: «Scacco matto» tu hai fatto le fusa. Sì, è stato un magnifico scacco matto, e veramente avrei potuto vincere se non fosse stato per quel brutto cavaliere che si sviò fra i miei pezzi. Frufrù caro, fingiamo...»
E qui vorrei saper riferire se non altro una metà delle cose che soleva dire Alice, quando cominciava con la sua parola favorita: «Fingiamo...» Ella aveva avuto il giorno prima una lunghissima discussione con la sorella, soltanto perchè aveva cominciato: «Fingiamo d'essere re e regine»: sua sorella, alla quale piaceva d'essere sempre molto esatta, aveva risposto che non potevano perchè erano soltanto in due, e Alice era stata costretta finalmente a dire: «Allora tu puoi essere una, e io sarò tutti gli altri.» E una volta aveva veramente atterrita la vecchia governante strillandole a un tratto nell'orecchio: «Signorina, fingiamo che io sia una iena affamata e voi un orso!»
Ma questo vuol dir divagare dal discorso di Alice al micio:
- Fingiamo che tu sia la Regina Rossa, Frufrù. Sai che penso? Che se tu stessi seduto e incrociassi le braccia, saresti preciso come lei. Prova subito, caro.
E Alice prese la Regina Rossa dal tavolo e la mise innanzi al micino come il modello da imitare; ma la cosa non riuscì, principalmente, disse Alice, perchè il gattino non volle piegar bene le braccia. Così, per punirlo, lo tenne di fronte allo specchio, perchè guardasse quant'era goffo.
-...E se non stai buono, - aggiunse, - ti faccio andare nello specchio. Ti piacerebbe di andare nello specchio? Ora, se stai attento, Frufrù, e non parli tanto, ti dirò tutta la mia idea intorno alla Casa dello Specchio. Prima di tutto, v'è la stanza che si vede attraverso lo Specchio: è precisa come il salotto dove stiamo; però tutte le cose son messe alla rovescia. Salendo su una sedia la veggo tutta... tutta tranne la parte dietro il caminetto. Quanto mi piacerebbe veder quella parte! Chi sa se nell'inverno c'è il fuoco: se il nostro focolare non fa fumo, non s'indovina mai; ma se c'è fumo di qua, c'è fumo anche di là. Ma chi sa, può essere una finzione, per dare a credere che ci sia il fuoco anche di là. I libri, poi, somigliano ai nostri libri; ma le parole sono stampate a rovescio. Questo lo so; perchè ho tenuto un libro contro lo specchio, e nell'altra stanza ne hanno pigliato un altro.
«Ti piacerebbe di stare nella Casa dello Specchio, Frufrù? Chi sa, se ti darebbero il latte là dentro? Forse il latte della Casa dello Specchio non è buono da bere... E ora, Frufrù, arriviamo al corridoio. Se si lascia aperta la porta del nostro salotto si vede un pezzettino del corridoio della Casa dello Specchio: somiglia molto al corridoio nostro, ma chi sa se più in là non è diverso. Oh, Frufrù, che bellezza se potessimo entrare nella Casa dello Specchio! Son certa che ci sono tante belle cose. Fingiamo di poterci entrare, Frufrù, fingiamo che lo specchio sia morbido come un velo, e che si possa attraversare. To', adesso sta diventando come una specie di nebbia... Entrarci è la cosa più facile del mondo.»
Alice stava sulla mensola del caminetto mentre diceva così, sebbene non sapesse spiegarsi come fosse arrivata lassù. E certo il cristallo cominciava a svanire, come una nebbia lucente.
L'istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di vedere che ce n'era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto.
«Così, qui starò calda come nell'altra stanza, - pensò Alice, - più calda, veramente, perchè qui non ci sarà nessuno che mi farà allontanare dal caminetto. Che bellezza, quando mi vedranno attraverso lo specchio e non potranno toccarmi!»
Poi cominciò a guardare intorno intorno, e si accorse che ciò che poteva essere veduto dalla vecchia stanza era comune e poco interessante, ma che tutto il resto era assolutamente diverso. Per esempio, i ritratti appesi al muro sembravano tutti vivi e lo stesso orologio sul caminetto (come comprendete, nello specchio si vedeva solo la parte di dietro) aveva la faccia di un vecchietto e sogghignava.
«Questa stanza non è tenuta pulita come l'altra» - diceva Alice a sè stessa, vedendo alcuni pezzi della scacchiera fra la cenere del focolare; ma un istante dopo con un piccolo «oh» di sorpresa s'inginocchiò per guardarli. Innanzi ai suoi occhi i pezzi della scacchiera sfilavano per due.
- Ecco il Re Rosso e la Regina Rossa, - disse Alice (sottovoce, per tema di spaventarli) - ed ecco il Re Bianco e la Regina Bianca che si seggono sull'orlo della paletta; ed ecco i due Castelli che camminano a braccetto... Non credo che possano sentirmi, - essa continuò, chinando un po' di più la testa; - e son sicura che neanche possono vedermi. Mi par quasi di diventare invisibile...
Allora qualche cosa cominciò a squittire sul tavolo dietro Alice, e le fece volger la testa appena in tempo per vedere una delle Pedine Bianche rotolare e cominciare a dar calci: ella la guardò con molta curiosità per vedere il seguito.
- È la voce di mia figlia! - gridò la Regina Bianca, passando accanto al Re e urtandolo con tanta violenza che lo fece stramazzare fra la cenere. - Mia preziosissima Lilla!... Mio regale tesoro, - e cominciò ad arrampicarsi selvaggiamente sull'alare.
- Tua regale sventataccia! - disse il Re sfregandosi il naso che aveva battuto cadendo. Egli aveva diritto di essere un po' irritato con la Regina, perchè era coperto di cenere dalla testa ai piedi.
Alice era ansiosissima di rendersi utile. La povera Lilla smaniava e strillava disperatamente; ed allora ella raccolse in fretta la Regina e la mise sul tavolo accanto alla sua rumorosa figlioletta.
La Regina si sedette ansando: il rapido viaggio per l'aria le aveva tolto il respiro, e per un minuto o due non potè far altro che abbracciare silenziosamente la piccola Lilla. Ripreso fiato, gridò al Re Bianco che sedeva imbronciato nella cenere:
- Bada al vulcano.
- Che vulcano? - disse il Re, guardando ansiosamente nel fuoco, come se credesse più che probabile scoprirne uno.
- M'ha soffiato! - balbettò la Regina, che non respirava ancora bene. - Bada di tornare qui... in modo regolare... non farti soffiare!
Alice osservava il Re, mentre egli si sforzava pianamente d'arrampicarsi d'asse in asse, e finalmente gli disse:
- A quella velocità ci metterai un secolo ad arrivare al tavolo. Sarà meglio che io ti aiuti, non è vero?
Ma il Re parve non accorgersi di quelle parole: era assolutamente evidente ch'egli non poteva nè udirla nè vederla.
Così Alice lo prese molto cortesemente, e lo sollevò più adagio della Regina. in modo da non togliergli il respiro; ma prima di metterlo sul tavolo, pensò bene, vedendolo con tanta cenere addosso, di spolverarlo un poco.
Essa narrò dopo di non aver mai visto in tutta la sua vita una faccia come quella fatta dal Re, nel momento ch'egli si trovò in aria tenuto da una mano invisibile e diligentemente spolverato: ne parve così stupito che non fiatò, ma gli occhi e la bocca andarono man mano diventando più grandi e più rotondi, finchè la mano di lei lo scosse fra tante risate che ci mancò poco non lo lasciasse ricadere sul pavimento.
- Oh! non far quelle smorfie, caro! - esclamò a un tratto dimenticando che il Re non poteva udirla. - Mi fai ridere tanto che appena posso tenerti! E non spalancar tanto la bocca! Si riempirà di cenere... Ecco, mi pare che ora sii abbastanza pulito! - ella aggiunse, allisciandogli i capelli e mettendolo sul tavolo accanto alla Regina.
A un tratto il Re stramazzò supino, e rimase perfettamente calmo; e Alice ebbe un po' paura per ciò che aveva fatto, e girò un po' per la stanza per trovare un po' d'acqua e gettargliela in faccia. Ma non potè trovare che una boccetta d'inchiostro, e quando ritornò con la boccetta, vide che il Re s'era riavuto e che parlava con la Regina in un timido bisbiglio... così basso, che Alice potè con difficoltà udire ciò che si dicevano.
Il Re diceva:
- Ti assicuro, mia cara, che ero diventato freddo fino alla punta dei baffi.
E la Regina rispondeva:
- Tu non hai baffi.
- La paura di quell'istante, - continuò il Re, - non la dimenticherò mai.
- La dimenticherai, - disse la Regina. - se tu non l'annoti nel taccuino.
Alice osservò con grande curiosità che il Re traeva di tasca un taccuino enorme, e cominciava a scrivere. Improvvisamente le saltò in mente una idea, e afferrò l'estremità della matita che sorpassava la spalla del Re e cominciò a scrivere per lui.
Il povero Re apparve imbarazzato e dolente, e lottò per qualche tempo con la matita senza dir nulla; ma Alice era più forte di lui. Finalmente egli balbettò:
- Cara mia, debbo procurarmi una matita più sottile. Questa non la so adoperare. Scrive cose che io non capisco.
- Che cosa? - disse la Regina guardando nel libro (in cui Alice aveva scritto: «Il Cavaliere Bianco scivola dall'alare. Egli non sa stare in equilibrio») - Questa non è un'annotazione che ti riguarda.
Vi era un libro sul tavolo accanto, e Alice, mentre se ne stava seduta a guardare il Re Bianco (perchè ancora si sentiva un po' in ansia per lui e aveva l'inchiostro pronto per gettarglielo sul viso, in caso dovesse svenire di nuovo) si mise a voltare le pagine per trovar qualche parte che potesse leggere, «perchè è stampato tutto in una lingua che io non conosco», diceva fra sè.
Era così:
irrat ilgil i e eccoc a are'S
,ottehcsip len navallertrig
irranicnec i icsol ittut
.ottets egnol navaigguffu
Essa guardò impacciata per qualche tempo; ma finalmente le venne un lampo di luce:
- Naturalmente è un libro della Casa dello Specchio. E se io lo metto contro uno specchio, le parole si raddrizzeranno.
Questa era la poesia che Alice lesse:
S'era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
«Figlio attento al Giabervocco:
ha gli artigli ed ha le zanne,
ed attento, attento aI Tocco,
e disprezza il frumio Stranne!»
Egli prese in man la spada -
da gran tempo lo cercava -
e sull'albero di nada
in pensiero riposava.
Mentre stava sì in pensiero
ecco il Giabervocco appare
per il bosco artugio e fiero
tutte alunche fiamme pare.
Uno e due! Ecco che fa
l'itra spada zacche, zacche.
L'erpa testa ei lascia, e va
galonfando pel pirracche.
«Hai ucciso il Giabervocco!
Vieni, figlio, che t'abbracci,
vieni, figlio, al bardelocco
dei dì lieti di limacci!»
S'era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
- Sembra bella, - essa disse, quando l'ebbe finita, - ma è piuttosto diffìcile a capire! (Come vedete, non confessava neanche a sè stessa che non poteva comprenderla.) Però mi pare che mi riempia la testa d'idee... Soltanto non so di che si tratti. Certo qualcuno uccise qualche cosa: comunque sia questo è chiarissimo...
«Ma, ohi! - pensò Alice, levandosi immediatamente, - se non faccio in fretta, dovrò ritornare oltre lo specchio, prima d'aver visitato il resto della casa. Vado prima a dare un occhiata al giardino.»
In un istante era fuori della stanza e correva giù per le scale... Veramente correre non è la parola esatta. La sua era una nuova invenzione per far le scale rapidamente e facilmente, come diceva Alice a sè stessa. Essa poggiava la punta delle dita sulla ringhiera, e andava leggermente giù senza neanche toccare i gradini coi piedi; poi volò giù per l'atrio, e sarebbe andata dritta alla porta nello stesso modo, se non si fosse afferrata al pilastro. Sentiva un po' di vertigine passando così per aria e fu lieta quando si accorse che camminava di nuovo nel modo solito.
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Uno dei libri più belli che io abbia mai letto.
lunedì 30 novembre 2009
Una mattinata ai macelli. di Gadda (1934)
La città si sveglia. Contro il sole già alto le case si levano bianche, ognuna per suo conto, (1) quasi ammodernate torri, dal verde vivido della pianura, che appare sottilmente ovattata dalle prime sue nebbie: i treni rallentano la lunga corsa sopra i canali e le rogge, lungo gli stendimenti di infaticabili lavandai.
Le linee elettriche ad altissima tensione sorpassano i pioppi, accostano l’agglomerato delle case e delle fabbriche fino alle sottostazioni periferiche: ivi si disarmano, (2) come l’armato potere dei consoli davanti la silente legge e le porte dell’Urbe. Gli apparecchi di Taliedo già ronzano, con le ali ombrate o dorate, sopra la testa degli spazzini insonnoliti; rientrano pedalando lenti i guardiani della notte, con una sigaretta tra le labbra; i gatti salutano il giorno accoccolandosi presso la macchina dell’espresso, nelle più mattutine tabaccherie. Un andirivieni di biciclette senza incrocio possibile.
La città chiede bovi, porci e vitelli a chi li ha saputi allevare. Grossi autocarri li sbarcano dalla verde provincia, da Cremona, da Mantova, da Stradella, dal Lodigiano, dall’Emilia e dal Veneto: qualche carretta lunga, con uno o due capi, arriva di qui presso. Partiti avanti l’alba con dodici capi, e dodici dentro il rimorchio, ecco già si spalancano sulla banchina; e ne fuorescono sull’ammattonato i fessìpedi a ritrovare la luce, la sicurezza ferma del suolo. Incedono verso il veterinario bianco nella dignità della loro natura e delle lor forme, odorosi di vita: dopo la breve sosta alle barre, i «cacitt» li sospingono fuori del recinto di sbarco, (usando bastoncelli di frassino, come corte fruste impugnate alla rovescia), avviandoli verso la pesatura e le stalle.
Vedo la strapazzata masnada attendere nei posti di arrivo l’esame del veterinario, uno dopo l’altro, poi decèdere con qualche blando muggito lungo il piano inclinato della banchina: uno relutta, o s’adombra, si rivolge sui passi già fatti, costringe impaurito all’inseguimento, per tutto il piazzale, gli uomini dal bastone e dalla tunica blu, che lo rincorrono e lo prevengono, con vociferazioni e agitazioni delle braccia.
La nuova paura vince l’altra, e ripiglia il cammino prescritto. Nell’attesa del medico qualche animale appoggia la fronte a una barra (bavando una sua schiuma dalla bocca, a fiocchi) quasi per raggelare al contatto del ferro, dopo la scombussolata notte, il tumulto doloroso del proprio sangue.
Qualche altro ha un corno mezzo divelto, e ne sanguina: il caglio scarlatto gli si è raggrumato giù per il muso, l’occhio immalinconito sembra dimandarne la cagione alle cose, al mondo. I «caccini» dalla tunica blu sono uomini tozzi, tra lo stalliere e il bovaro: hanno una placca d’ottone sul petto, col numero, come i facchini delle stazioni.
Loro cómpito è guidare e sorvegliare i bovi dalla banchina alle stalle di sosta, alle pese, al dazio, al macellatoio, lungo l’intera percorrenza: ogni bestia paga un tanto, a forfait.
Il veterinario della Sanità Municipale eseguisce, come detto, una prima ispezione allo sbarco. Certi stallieri vuotano gli autocarri ed i traini dalla paglia trita e dallo strame notturno, l’ammucchiano in appositi padiglioni. Altri, nello spiazzo di ricevimento, lavano carri e autocarri con getti d’acqua.
Intanto anche un treno è arrivato: poiché la città compera dovunque il suo lesso, cliente ottima dei pascoli e di lontane foraggiature: da Postumia entrano i bovini di Croazia e d’Ungària. Tanti ne entrano, che il mercato degli animali in pianta s’è quasi trasferito colà.
Da un prossimo scalo ferroviario, che serve e disserve tutta l’annona milanese, la locomotiva della Direzione Macello (pare una vecchietta gobba, ma basta al suo compito) ha trainato il convoglio lamentoso fino alla banchina: i quadrupedi ne escono mezzo intontiti, digiuni: alcuni paiono infreddoliti, rattrappiti: con deboli gambe sotto il gravame della testa, delle anche e delle culatte. Il loro incedere è più peso del solito, timido e malsicuro.
Vedo che non tutti i cornuti hanno ricevuto quelle cure privative cui si sommettono i vitellini, per farne dei manzi che siano veramente degni di Milano. Per i piani inclinati discendono dalla banchina, lunghissima, tori insigni, i quali procedono a fatica pure all’ingiù, con la gravità decorosa di chi si sente onusto d’evidenti benemerenze. Le gambe di dietro paiono aver perduto l’articolazione del ginocchio: e sono esse la vera e l’unica causa del ritardo.
Ciò mi illumina circa il gran lavorare che ho fatto — tante volte! — a tavola. Masticavo, masticavo, con la soddisfazione di una molazza, in cartiera, che digerisca la resa d’un romanzo-toro.
Ecco le pesatrici automatiche: allineate in batteria sotto una pensilina in calcestruzzo armato, a chiusura del piazzale: ognuna la sua chiara cabina: ognuna è provveduta di un’aletta d’entrata senza ritorno, un po’ come i conta-persone dei musei; ma ci passa un bel bove.
Tutti gli sbarramenti d’avvìo e di raccolta sono in tubo di ferro verniciato di grigio: compiutisi il ricevimento e la conta, subito il personale di pulizia subentra a quell’altro, con ramazze e manichette ad acqua: per detergere la banchina e il piazzale.
Interrogata, ogni pesatrice enuncia il peso dell’animale su talloncini a stampa, e il responso determina il costo. I commissionari, (in rappresentanza del negoziante), e i macellai acquirenti presenziano la breve cerimonia.
Talora i bovini arrivano con qualche anticipo, da venti a sessanta ore, ed è ovvio, rispetto al giorno di macellazione: in tal caso vengono stabulati in ampie e chiare stalle, pagando un forfait per giorno e per capo. Ma per lo più dopo la prima pesatura, vengono avviati a quella fiscale del Dazio, indi ai padiglioni di macello.
Ne seguo il muto brancolamento, contenendo l’angoscia, il malessere. Mi dico e mi ripeto che si tratta di una necessità senza alternativa, il luogo, nel sole tepido, non è altra cosa se non un mercato, uno «stabilimento» qualunque…
I vitelli vengono trasportati alla loro fine su carri speciali, trainati da carrelli ad accumulatori. Tristi e direi présaghi, paralizzati in una rassegnazione senza più gemiti, ne vengono fatti discendere a quattro a quattro per una specie di barcarizzo e vi slittano come semplici pesi, qualcuno a culo indietro, piovendo entro i brevi recinti di entrata dell’ammazzatoio.
Qualche cosa di simile, più in là, deve accadere ai porcelli, clamorosi e striduli, inutilmente striduli.
Sospinti dai caccini, i buoi ed i tori arrivano invece con le loro gambe, lentamente, alla fortuna scarlatta. Entrano nel padiglione pavimentato di piastrelle rosse, diretti dalle stangate sempre più tenui e quasi oramai fatte pietose degli uomini dalla tunica blu: un uomo li attende, con una tunica blu, con un fazzoletto bianco al collo: la sua mano è lorda come quella di Macbeth, orribilmente armata, come quella di Macbeth: tutto il suo braccio è intriso in un colore da ’89.
Già chinano le corna, ristando: egli non li ha guardati negli occhi: li accosta a braccio disteso. E prova l’acume del ferro sulla cervice, dove sa, tra vertebra e vertebra; alza, dopo incontrato il punto, il coltello e lo vibra fulmineo: nel modo, direbbe Leibniz, del «minor male possibile». La bestia si accascia pesantemente: coi quattro zoccoli all’aria, riversa, gli occhi morenti, agitata ancora da stratti e da sussulti paurosi, senza attenuazione possibile.
Qualcosa di sacro si spegne, l’essere si adegua alla immobilità. Una nera polla dalla cervice, la stanchezza suprema.
Il secondo lavorante introduce nella ferita una bacchetta pieghevole, quasi un giunco, e la sospinge per entro la colonna vertebrale una quarantina di centimetri a spegnere i moti del cuore: gli ultimi sussulti della meccanicità nervosa accompagnano nella bestia moribonda questo provvedimento dell’uomo, un tremito si propaga fino agli zoccoli, poi tutto il greve corpo è inerte. L’organismo è ridivenuto materia: il costoso elaborato delle epoche, disceso di germine in germine traverso i millenni, è annichilato da un attimo rosso.
Sperimenti fatti con la pistola o con la fulgurazione han dato inconvenienti gravi, mi dicono, spreco di tempo. L’animale dovette soffrire, talvolta, durante alcuni minuti: fuggì ferito, ferì gli uccisori. Il «minor male» è nel procedimento adottato.
Tre padiglioni da trentasei posti cadauno costituiscono il macellatoio dei bovi: in un quarto si attende ai cavalli: in un quinto ai porcelli: un sesto è l’ammazzatoio dei vitelli. Poco capretto, a Milano, salvo che a Pasqua.
Dove si lavora ai bovini, un capo sala e un vice-caposala. Tabellazioni accurate assegnano per ogni animale il posto, la matricola, il proprietario. Due squadre di undici accudiscono, in un’ora e mezzo, alla macellazione e alla preparazione di 18 buoi cadauna, dando, in capo a quel tempo, le 18 bestie finite, pronte pel trasporto o la cella. Mezz’ora, poi, di lavatura e di riordino: quattro turni al giorno; ove occorra.
Sui diciotto, inanimati e distesi, gli undici si dividono il cómpito con ordine e con una incredibile celerità: chiazzati nelle vesti, intrise le mani e le braccia di sangue, hanno alla cintola una scatola di zinco in forma d’una rigida guaina: è la sede collettiva di due o tre lame assortite; ed ancora poi l’«acciarino» dove le affilano, ch’è come una lima lunga e rotonda dal manico di legno, quasi uno stilo od un’arma di riserva.
L’opera totale si suddivide nelle specializzazioni. Il sangue viene chiamato giù da un taglio alla gola e ne gorgoglia orribilmente nero, dapprima, in bacili di zinco; vuotati questi ancora fumiganti in una cisterna di raccolta montata su carrello. Un altro operatore spicca la testa e le zampe, appende la testa al gancio zincato d’una specie d’attaccapanni: e quella ti guarda ora dai semichiusi occhi, immoti e vitrei come d’un cornuto Oloferne.
Di poi il corpo viene agganciato posteriormente, dalle ginocchia mozze e scoperte, i due ganci fra tendine e osso; ed è sollevato mediante un verricello, di cui le ruote superiori corrono sulla rotaia a mezz’aria. «I faccettisti» aprono l’animale ed estraggono i visceri; uno apre, uno estrae. Passano rapidi da un animale all’altro, affilando nel breve intervallo i coltelli. Quello che apre disegna prima il gesto col ferro sopra la pelle, quasi prendesse la mira, perché il taglio deve riuscir fermo ed esatto. L’eviscerazione d’ogni bove richiede poco più d’un minuto: aperto l’addome, ch’è in alto, la grossa polta delle trippe se ne riversa, e decade turgida, e talora verdastra, dilatandosi sul pavimento, gonfia di indesiderabile sterco. I trippai accorrono con speciali carrelli, piovuti come avvoltoi sulle ventraglie, e par che le rubino di tra i piedi agli operatori, asportandole verso i loro calderoni fetenti.
Seguono la scuoiatura, le operazioni di «abbellimento». La prima viene eseguita da cinque lavoranti sugli undici: uno «scalfa» i quarti di dietro, due imprendono invece a scorticare le due metà della pancia, fianco destro e fianco sinistro, e vengono detti doppioni. Due lavorano la schiena a distaccarne il «groppone», salito il primo sopra un alto sgabello: l’altro lavora dal basso.
La scorticatura è un’operazione delicata, intesa a cavar di dosso alla vittima la di lei pelle, senza sciuparla; la pelle è assai ricercata, venduta a un prezzo che ammonta fino al 10 per cento del valore totale della bestia. Così dèvesi evitare ogni «rigatura» o mala raschiatura che ne possa invilire il prezzo di vendita; incidere il connettivo soltanto, che la lega al grasso ed al mùscolo.
A Milano si opera la scuoiatura con coltelli ordinari a larga lama per le parti ondulate, con le scuoiatrici elettriche Bignami per le pance e le schiene. L’operaio si butta in ispalla uno speciale telaietto a zaino con il motorino elettrico, il giro-moto viene trasmesso alla scuoiatrice da un tubo snodato. La scuoiatrice ha forma d’un largo e piatto anello del diametro d’una dozzina di centimetri, provveduto di Manico. Delle lamette tipo rasoio girano celermente fra i due paralame anulari affacciati.
Una volta macellata la bestia, e scuoiatala, si procede al suo abbellimento.
L’«abbellimento» è una sagace preparazione dell’animale perché figuri netto e generoso di carne, senza pendule bacche di grascia o frastagliamenti di tèndini. Il coltello non è ormai che il pettine o l’arricciabaffi di un parrucchere ambizioso.
Certe drupe, certi strati di bel grasso compatto nella regione spaccata dello stracùlo vengono cincischiati vezzosamente a punta di coltello: un’acconciatura per il ballo di mezza quaresima.
Sopita l’angoscia, l’animo ormai si distende in una mattutina veduta di beccheria, nomi intesi ogni qualvolta in cucina rampollano dalle aperte costate, messaggeri del pranzo.
Il coltello agisce rapido e conscio: e va d’attorno leggero leggero ai ritocchi, un panno deterge dai carnicci e dal sangue la liscia parete del muscolo striato di chiari tendini; e poi l’ascia imprende a lavorare sommessamente, del macellarone più alto, che pare insonnolito sul mestiere: (ma che sa dove dare del taglio). Egli fende la colonna vertebrale con simmetria rigorosa, aprendo fra le due mezzène una finestra soltanto, che le lasci ancora congiunte, per buona figura, presso le culatte e la spalla.
Uno degli undici, con un grembiule anatomico e una sanguinosa borsa di cuoio semiaperta davanti, trascorre intanto da un animale appeso a quel dopo, lesto ladro fra le occupate menti degli altri: defrauda in un baleno le bestie delle loro ghiandolette essenziali, ipofisi, timo, surrenale, tiroide, paratiroide: e alle vacche gli ruba subito le ovaie.
Ogni testa cornuta, appesa al gancio con il «linguino» già fatto, egli la solleva di un poco mettendoci sotto la sua stessa testa imberrettata alla diàvola, pontando del corpo lavorando con le mani, col ferro e con gli occhi all’insù, come a staccare il batacchio d’una campana: e ne spicca invece qualche moruletta rossa, appiccicosa e molliccia.
In pochi minuti la sua borsa di cuoio è piena di opoterapia: i più autorevoli farmacologisti ne caveranno tiroidine e ovarine e preparati di ogni maniera, normalizzatori d’ogni più periclitante sistema endocrino. Pancreas e aggeggi del toro vengono acquistati a parte, dato anche il volume, per dedurne pancreatina e insulina regolatrice del tenore di zùcchero, o l’essenza quinta di una maschia generosità del pensiero.
Zitellone redente dall’acidità (di stòmaco) e diabetici ridivenuti amari come il calomelano devono a questi dieci minuti di lestezza e di previdenza la recuperata salute.
Ma ci vuole una formula! Sentito il parere del distillatore di formule, gli opoterapisti ne distilleranno mirifiche fiale; barbugliando in pentole senza precedenti storici le loro fantasiose decozioni. Le tre fatidiche sorelle compiranno il supremo incantesimo della vita, zoccolando d’attorno la caldaia a cavalcioni d’una scopa, in un ritmo ossitono da diavolesse:
Double, double toil and trouble:
Fire, burn: and, cauldron, bubble.
Tuoni e lampi! La più scarmigliata vaticinerà nello specchio discendenti maschi per otto generazioni ininterrotte a chiunque avrà comperato e pagato quel filtro.
E il lavoro continua, raddoppia. Le pelli, sùbito, ai commissionari delle concerie.
Tra un’ala e l’altra d’ogni padiglione è un andito ampio, coperto: vi vengono pulite, arrotolate, pesate, imbarcate. Il sangue, sùbito, che ancora fuma dai carrelli, a un attiguo e recentissimo impianto, che ne deduce concimi, lavori plastici, ornamenti, collanti.
È venduto fino a 120 lire il quintale. Intanto un andirivieni di garzoni: e alcuni omacci con la catena d’oro sulla pancia, che hanno l’aria di sapere perché son lì. Uno del Municipio collauda di timbri violàcei le bestie, ancora appese dopo ultimata la toilette. Mentre le doppie mezzène vengono carrucolate al frigorifero per il deposito e la frollitura, gli autocarri dei macellai si colmano d’altre mezzène e di quarti attingendoli dal frigorifero stesso o direttamente dai padiglioni: ingombrando tutta la lunga galleria di caricamento che divide quello da questi, dove incurvi garzoni trasferiscono a spalla tutto il meglio che possono, profumati quarti e mezzène, spalancati vitelli.
Li avevo persi di vista, creature della tepida innocenza, al triste limite dell’ammazzatoio, davanti i cucinoni maleolenti delle trippe, la loro anima pàrgola già quasi vanita nell’obbedire, prima ancora che l’uomo alto li mazzerasse alla nuca, senza lamento.
Neppur cadono, quasi: paiono ruzzare ad aggomitolarsi in un gioco. Vengono agganciati agli zoccoli dietro, sollevati meccanicamente sopra una vasca, sgozzati: il bruno orrore sgorga oramai da un oggetto.
Tutta la bisogna non richiede cinquanta secondi: preciso e infallibile è l’operaio dalla mazza, preciso e certo quell’altro che deve servirsi della lama abominevole.
Nuovamente carrucolati lungo le rotaie pensili fino ai singoli posti di lavorazione, dapprima un operaio li incide rapidissimo all’umbilico: ed applica poi nella ferita l’ugello d’una manichetta ad aria compressa, insufflandovi quanto ci vuole per gonfiarli a dovere, come dei maiali. «Parevano tanti cani appiccati», ed ecco in un attimo sono già gonfi: turgidi e netti: la lavorazione riesce più precisa sulla pelle e sulle carni distese, la punta e la lama incideranno più pronte i tessuti.
Ed ecco i compressori del frigorifero, che imperturbati motori vengono azionando nella Centrale pulita: coperti di candida neve sulle tubazioni d’espansione. Il frigorifero comprende un deposito generale del Consorzio per sosta fino alle 24 ore (già computata nel forfait di macellazione) nonché le celle dei singoli signori macellari. Temperatura ideale del deposito: cinque, sei gradi sopra lo zero.
Bianchi veterinari si aggirano per i padiglioni alla visita ultima, esaminando visceri e carni: chiedono a prestito un ferro, incidono, scrutano. Frequente la tubercolosi, massime per i bovini di stalla: e si rivela con caratteristici nòduli alla superficie dei polmoni e all’interno delle due pleure, talvolta è manifesta nel rene, nei vasi linfatici.
Allora i visceri vengono inviati alla sardinia, bolliti in autoclave seduta stante, degradati a materia e concime nella verde quiescenza della pianura. I veterinari si trasferiscono in bicicletta da un padiglione all’altro, vegliano a che nulla di sospetto abbia a varcare le chiuse barriere del macello: investiti del fidecommisso di una città e d’un popolo, la loro opera si esplica in un’attenzione continua, che vieti il male: constatandolo e distruggendolo davanti le porte della città.
Ruit hora. Il mercato del bestiame vivo e delle carni, nel suo clamore pieno di omaccioni, raccoglie alle strette di mano e ai buoni patti la folla dal mestiere impellente: negozianti, macellai, commissionari (le tre categorie tipiche): più qualche mediatore superstite ai tempi, che agisce per conto di una macellaia femmina padrona di negozio. (3)
Taluno della provincia ha un fazzoletto al collo, il cappello all’indietro. Sùdano, bofónchiano, annotano adagio adagio i suoi pesi e i suoi costi in un calepino bisunto, che fa le orecchie, con un lapis nero senza punta che a me farebbe venire subito il nervoso: e per loro, invece, è proprio quel che ci vuole, amico intimo dei mozziconi di «toscano» in fondo a una tasca.
Già gli autocarri strombazzano, chiedono il passo ai più grevi, nella galleria di caricamento dove ognuno tira a cavarsela quanto più presto gli è dato: fremono già d’irrorare del suo giusto vitto (per la dimane) la città che precipita oggi al suo giusto mangiare, verso i dodici tocchi.
Alcuni pochi sono dei baldracconi sfiancati, sanguinolenti, col tetto a pioventi, d’un color verde municipale 1888: altri scivolano via lisci e laccati di bianco, modernissimi, ermetici: fuggitivi ai lontani spacci e negozi.
Undici tocchi: e tutta una filologia scaturirà nel negozio tra la bilancia e la cassa, tra il garzone di banco e la serva, tra l’accetta e il libretto: (4) una nomenclatura conclusiva e perentoria, combinata di punta, di lonza, di canetta, di aletta, di scamone, di bamborino, di fiocco, di magatello, di filetto, di fesa, di culatta, di polpa. Ogni storia si adempie e si determina in una filologia.
La complessa organizzazione del Macello Pubblico comprende un importante reparto di microscopia che fa capo all’Ufficio municipale d’Igiene e di Sorveglianza Veterinaria: e infine una scuola per allievi macellai. L’esame clinico degli animali vivi, delle carni e dei visceri viene così ad essere fiancheggiato da indagini microbiologiche sulle carni stesse, sui sieri, sul sangue. Si isolano e si perseguono mediante cultura bacillare ed analisi microscopica i germi de’ mali infettivi, del carbonchio, ad esempio, della morva, dell’afta. La presenza della trichina, il microscopico verme che infetta le carni del maiale e dell’orso, è confermata mediante proiezione luminosa traverso la lastrina del preparato. Un apparecchio fotoscopico palesa con chiara evidenza sul telone a muro i gomitoletti insidiosi de’ vermi, che appaiono come rannicchiati tra fibra e fibra, quasi fossero a pensione dentro il fascio muscolare.
La scuola dei garzoni macellai, sorta nel clima del buon volere fattivo ad opera del Consorzio e del Municipio, auspici il Sindacato di categoria e la Federazione Provinciale del commercio, è intesa a munire di un qualche fanale conoscitivo i velocipedastri dal camiciotto rigato e dal collo rubizzo che sogliono pioverci addosso nelle vie di città quando meno ce lo aspettiamo, alati messaggeri di ossobuco, lacett e rognon. Comprende due corsi, primo e secondo, dove nozioni pratiche sul bestiame da macello, sui suoi pregi e difetti, sui modi di constatazione di essi, sulle razze tipiche, sull’allevamento, sulla tecnica del mercato, sul taglio, sul computo delle rese, sull’utilizzazione de’ ricavati, sulle malattie più frequenti, sulle qualità delle carni, sui nomi d’uso nelle diverse piazze, ecc. ecc., vengono impartite dal signor Gaetano Bestetti con chiara voce e intelligente tranquillità d’animo. Egli ha tra mano il bastoncello de’ «cacitt» e se ne serve come il geografo della bacchetta a individuare sui corpi appesi i singoli organi, i tessuti, le parti. Esercitazioni di taglio (come per i tagliatori sarti) completano il corso, su qualche maiale o vitello o quarto di bue, agganciato ad uno speciale cavalletto verde pieno di opportunità didattiche.
I due libri di testo, di prima e seconda classe, sono molto chiari, conclusivi, e ben fatti.
Alla fine del corso alunni e docenti si raccolgono in gruppo per una gioviale fotografia collettiva sotto il sole di giugno: e la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde conferisce lire 150 cadauno ai diplomi di primo grado, 100 ai secondi, 50 ai terzi.
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1. Ai limiti della campagna, nella zona periferica esterna dove ebbero sistemazione i macelli, sorgono case recenti, a sei piani: già cittadine e purtuttavia isolate: assai brutte, nei fianchi scialbati e nel tetto, in paragone delle vecchie cascine lombarde che i filari de’ pioppi e dei salci quasi nascondono, non fosse il fumo d’un camino a tradirle. Queste cascine, regolarmente distanziate l’una dall’altra, segnano la vecchia misura e la necessaria «giurisdizione» agricola della pianura lavorata.
2. Intendi: l’energia elettrica viene trasformata alla tensione di distribuzione; ch’è assai minore di quella di trasporto.
3. I negozianti vendono o commerciano bestiame in proprio: i commissionarî trattano per conto di terzi, cioè ditte importatrici o allevatori lontani: i macellai sono acquirenti, con bottega in città, e rivendono al pubblico.
4. Secondo il vecchio costume dei milanesi, il macellaio vende a credito, alle famiglie agiate: l’acquisto giornaliero viene segnato (marcàa) in un quadernuccio rilegato d’una teletta di poco prezzo, nera o rossa o azzurrina; sul fronte, impressa in oro, una testa di bue cornutissimo. Il regolamento del conto si fa a ogni fine mese. Il quadernuccio si chiama el librett, ed è uno dei pochi libri che ornino di lor presenza le case degli agiati lombardi.
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giovedì 12 novembre 2009
Poesia e libero arbitrio.
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;
Then took the other, as just as fair,
And having perhaps the better claim,
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that the passing there
Had worn them really about the same,
And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.
I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.
Robert Frost, The road not taken, 1920