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mercoledì 30 dicembre 2009

La certezza come propaganda del mondo incerto. (articolo che uscirà su: Ateo UAAR n2 2010 tema: catastrofi)

“Nulla è certo a parte le tasse” (Franklin).
Questo celebre aforisma è spesso chiamato “Legge di Franklin”, certo, non si può parlare di legge nel senso scientifico o matematico del termine ma lo è in un senso più trasversale, lo è perché è vera. Nonostante la grande verità racchiusa in questa breve proposizione accade però, nel mondo, qualcosa di sorprendente. Astrologia, religione, tarocchi, sono tutte manifestazioni di una volontà speranzosa dell’uomo che una certezza, nel senso trascendentale di questa parola, esista e sia in qualche modo tangibile attraverso alcune manifestazioni mistiche o sociali (la meteorologia è quello che potremmo definire come un caso borderline). Gerd Gingerenzer , scienziato cognitivo del Max Planck Institute di Berlino, rintraccia la causa di queste manifestazioni irrazionali in quella che potremmo definire la patologia dell’ “analfabetismo numerico”. In cosa consiste questa patologia? Potremmo affidare la risposta ad una simpatica bambolina di nome Barbie: “La matematica è difficile, andiamo per negozi”. I dati che ci vengono forniti dai media per valutare le reali probabilità che un evento accada sono spesso inutilizzabili (basti pensare ai sondaggi di cui si vanta il nostro premier), ad esempio ci viene fornita la percentuale riguardante un evento singolo, il che è assolutamente privo di senso visto che la frequenza di un dato evento “e” si ricava sulla base della ripetitività e va inquadrata entro una classe di riferimento ben specifica. Ma anche quando i dati ci vengono correttamente forniti siamo noi stessi a non avere assolutamente idea di cosa significhi ricavarne una percentuale corretta. Questo problema, che potrebbe sembrare ai più utile solo a scienziati e matematici, riguarda invece qualsiasi essere sociale per il solo fatto di essere inserito all’interno della più grande delle categorie politiche: lo stato. In quanto cittadini siamo imbottiti di percentuali che riguardano, ad esempio, la sanità (percentuali tumorali nei fumatori), la politica (consenso al governo), la religione (numero dei credenti), ecc… Come riuscire a muoversi in tutto questo movimento di numeri se non si è in grado di leggerli? La scienza (compresa la statistica) viene spesso identificata come mera “technè” e le viene negata completamente la dignità di cultura, questo è gravissimo non soltanto perché i non addetti ai lavori si formano una idea distorta di essa, ma anche perché, queste stesse persone, rinunciano di fatto ad avere gli strumenti per comprendere il contesto in cui sono inseriti. Cercare di contrastare l’irrazionalità (così come facciamo noi dell’UAAR) in un mondo in cui è stato creato un business della certezza è veramente un lavoro complesso; trasmettere l’idea che bisogna imparare a vivere con l’incertezza sembrerebbe impossibile. Chi di noi vorrebbe sentirsi dire da un medico come risposta alle proprie perplessità: non lo so!? Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa i dati statistici ci trasmettano, noi vogliamo solo avere la serenità che tutto andrà bene, che tutto sia certo. Vogliamo sapere se domani pioverà e se l’anno prossimo finirà la crisi senza che mai ci sia dato modo di dubitare (quel dubbio che Richard Feymann definiva, peraltro, l’inizio della conoscenza). Come non vedere in tutto questo la causa delle superstizioni religiose e dell’antipatia nei confronti della matematica? Proprio quella matematica che se studiata correttamente, ci darebbe elementi necessari, per calcolare realmente se un dato evento ha effettive possibilità di ripetersi o accadere. Come è possibile che gli stessi dati interpretati da persone diverse possano generare così differenti interpretazioni? La risposta ormai è semplice: perché quelle persone, non solo agiscono da profani della matematica, ma anche perché agiscono come imprenditore di quel business della certezza di cui abbiamo già parlato. Trasmettere un’immagine positiva della scienza sarebbe il minimo che possa fare una società che pretenda di essere definita come tale, non perché la scienza sia una chimera in grado di risolvere tutti i problemi dell’uomo (come propongono dei “falsi amici” fanatici) ma perché una corretta cultura matematica e scientifica darebbe all’uomo la strumentazione adeguata per guardare il mondo, non come un misterioso miracolo di una mente invisibile e infinita, ma come un sistema razionale di cause e fenomeni che, se correttamente osservati, possono anche risultare statisticamente prevedibili e controllabili.

Leonardo Caffo

martedì 29 dicembre 2009

Un genio a tre vite.


RICHARD MONTAGUE

Il filosofo e logico americano Richard Montague (1930 - 1971), anche se non un linguista di professione, esercitò una grande influenza in semantica negli anni 70 e 80, soprattutto grazie ai suoi contributi allo sviluppo della semantica delle lingue naturali. Parlare una lingua, secondo Montagne, vuol dire esercitare una competenza che si estrinseca non soltanto nel riconoscere o nel produrre espressioni grammaticalmente corrette, ma anche nel valutare se tra due espressioni sussista una relazione di implicazione e quale sia la relazione tra le espressioni linguistiche e gli stati di cose. È esattamente in questo che consiste la “competenza semantica”: alla luce del fatto che spetta alla logica (che è una branca della matematica) studiare le relazioni di implicazione tra le proposizioni, ad essa spetterà anche studiare in termini meramente formali (sulle orme di Carnap) la competenza semantica, proprio come la sintassi generativa di Chomski studia la competenza sintattica. Montague fu uno dei primi a esplorare sistematicamente le possibilità di un’analisi formale completamente rigorosa sia della sintassi che della semantica dei linguaggi naturali sulla linea della logica. Il modello da lui creato, a cui ci si riferisce comunemente come grammatica di Montague, ha stabilito uno standard sia per copertura empirica sia per livello di formalizzazione, rispetto al quale analisi e strutture alternative si giudicano. Il termine grammatica di Montague è usato comunemente per riferirsi specificamente alla proposta che Montague diede nel suo articolo seminariale The Proper Treatment of Quantification in Ordinary English (1970, pubblicato nel 1973). Stricto sensu, questo è fuorviante, dato che Montague scrisse un’intera serie di articoli sull’applicazione della logica nell’analisi dei linguaggi naturali, che si differenziano per impostazione e per dettagli. Comunque, il nocciolo comune delle analisi proposte nei vari articoli è sufficiente a giustificare il termine Grammatica di Montague tout-court.

Il lavoro di Montague costituisce una rottura decisiva dalla visione tradizionale secondo cui i linguaggi naturali sono troppo vaghi e asistematici per essere trattati formalmente, nello stesso modo in cui sono trattati i linguaggi formali della logica e della matematica. Questa posizione, che nella storia della filosofia contemporanea risale almeno a Russell, Frege e Tarski, fu predominante nella filosofia della logica fino agli anni 70, anche se ci furono notabili eccezioni. Una di queste fu Hans Reichenbach che nel 1947 aveva già dedicato una buona parte del suo Elementi di logica simbolica all’analisi logica delle costruzioni del linguaggio naturale. Una teoria rigorosamente formale della sintassi di un linguaggio è un prerequisito per una qualunque sua semantica formale, e l’apparente impossibilità di una teoria della sintassi del genere per i linguaggi naturali fu una delle ragioni per cui Tarski, padre fondatore della semantica modellistica in logica, pensava che i suoi metodi semantici non potessero mai applicarsi a tali linguaggi. Dal rapido svilupparsi della linguistica generativa negli anni 60 e nei primi 70, uomini come Montague, Donald Davidson, David Lewis e altri acquisirono fiducia nel fatto che una teoria formale della sintassi del linguaggio naturale non era solo un’utopia, e che, pertanto, una semantica formale poteva essere possibile. Sebbene il lavoro nella linguistica generativa costituisse un importante input per lo sviluppo di una semantica modellistica per i linguaggi naturali, questo non significa che questa impresa fosse accolta con entusiasmo nei circoli della linguistica generativa. Al contrario, mentre persone come Montague e Davidson erano dell’opinione che non solo la sintassi, ma anche la semantica dei linguaggi naturali potesse essere studiata in modo preciso e formale, quest’idea rimase lontana dal comune tra i linguisti generativi. Lo stesso lavoro di Montague fa parte dello sviluppo che include il lavoro di Davidson, Lewis, Cresswell e molti altri. Le sue caratteristiche, che lo distinguono dai lavori di altri, sono, prima di tutto, la generalità e il rigore con i quali Montague conduce le sue analisi; secondo, l’ampio uso di qualunque artificio logico ritenga necessario; e terzo, il modo in cui ha combinato sintassi e semantica.

Partendo dalla prima caratteristica, nel suo articolo Universal Grammar (1969, pubblicato nel 1970), Montague sviluppa una teoria generale di sintassi, semantica e pragmatica sia per i linguaggi formali che per i linguaggi naturali, nella quale la grande generalità è complementare all’apparato formale usato per le specifiche analisi. Sebbene la pragmatica nel senso di Montague sia un’area ristretta, che coincide grosso modo con la semantica degli indessicali e delle espressioni dipendenti dal contesto, come i pronomi, questa teoria generale potrebbe essere chiamata a ragione una semiotica logica. Tra i suoi esempi, vi sono vari modelli concreti che Montague trasse in articoli diversi. La generalità e il rigore del modello della Grammatica Universale rendono la visione di Montague su sintassi, semantica, pragmatica e loro relazioni, esplicita e perspicua, ancora difficile da superare.

La seconda caratteristica del lavoro di Montague è che nel descrivere il comportamento semantico delle espressioni e delle costruzioni dei linguaggi naturali, Montague non è preoccupato da nessuna restrizione a priori sul tipo di attrezzo logico da usare. Così fa ampio uso della logica intensionale e della Teoria dei Tipi senza essere preoccupato dai problemi filosofici e metodologici che secondo alcuni circondano l’uso di questi attrezzi. Questo aspetto distingue Montague per esempio dal suo contemporaneo Davidson, per il quale l’uso della logica intensionale costituisce una stravaganza che deve essere rifiutata sul piano filosofico. Sottoscrivendo gli scrupoli di Quine sulle entità intensionali, Davidson pensa che le semantiche del linguaggio naturale dovrebbero essere descritte in termini di logica estensionale del primo ordine, ed egli scarta così gli altri tentativi: “C’è perfino pericolo che gli ignoranti e gli esperti uniscano le forze; i primi, sentendo farfugliamenti di parole possibili, mondi possibili, ecc.,”. Nonostante molti semanticisti abbiano seguito Montague nell’avvalersi di qualunque strumento abbiano bisogno, questo uso libero di strumenti potenti divenne equilibrato durante gli anni 80 grazie all’interesse nel potere espressivo semantico del linguaggio naturale, per esempio, nella ricerca sulla questione di quale parte dell’apparato logico che le persone usano sia in realtà necessario nella descrizione del linguaggio naturale. In particolare, nel contesto di una teoria generale dei quantificatori, della quale l’analisi di Montague delle espressioni quantificate The Proper Treatment of Quantification in Ordinary English forma uno dei punti di partenza, ha portato a interessanti intuizioni sulle differenze tra linguaggi naturali e formali.

La terza caratteristica del lavoro di Montague, e della tradizione che l’ha seguito, è il modo in cui sintassi e semantica sono combinate insieme. Il nocciolo della visione di Montague su questa questione sta nel principio di composizionalità del significato. Questo principio può essere parafrasato più o meno così: il significato di un enunciato dipende dai significati delle sue parti. È chiamato anche principio di Frege, in virtù della sua somiglianza con il principio di composizionalità delle estensioni che sta alla base della soluzione di Frege al problema dei giudizi multi-quantificati, ma se questa attribuzione sia storicamente corretta è materia di dibattito. L’interpretazione corrente dello status del principio di composizionalità è quella di un principio metodologico, più che di un’ipotesi empirica. Un resoconto composizionale di un certo tipo di espressione riguarda un’analisi sintattica e semantica: egli prima determina cosa conta, come parti dell’espressione, poi stabilisce quali sono i significati corrispondenti.

Il linguaggio naturale è solo uno degli argomenti a cui Montague ha lavorato. La parte principale del suo lavoro è in teoria dei modelli e logica. Ha scritto anche articoli sull’analisi filosofica, che assieme ai suoi articoli sul linguaggio naturale e sulla logica modale costituiscono la sua opera.
(A cura di Matteo Casu)

giovedì 17 dicembre 2009

"Siate curiosi, siate folli" (Steve Jobs)


Siate curiosi siate folli
di Steve Jobs

Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo. Il credo del capo di Apple


Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie. La prima storia è su una cosa che io chiamo 'unire i puntini' di una vita. Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? è iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente!". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.

Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.


Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.

Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.

Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.

Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Vi faccio subito un esempio.

Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.

Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.

giovedì 10 dicembre 2009

Piume (http://qualcosadelgenere.splinder.com)

Seneca diceva che la felicità non risiede nel piacere ma nella virtù e con buona probabilità non si era mai scopato una negra.

Non sarà il miglior messaggio contro il razzismo mai scritto, ma se c’è una cosa in cui eccelle una nigeriana piegata a novanta non è certo raccogliere cotone. E chi sono io per contraddire Nelson Mandela?

Per come la vedo io, il sesso è l’unico ambito della sfera sociale in cui le distinzioni razziali dovrebbero essere ampiamente legittimate. Il sesso e i posti a sedere sui bus.

E giungereste a conclusioni sorprendentemente concordi con le mie, se solo chiedeste alla vostra ragazza cosa ne pensa dell’uccello di Lenny Kravitz. Si chiama Panzerotto; è un canarino a piume arricciate del sud della California che lo stravagante Lenny è solito portare con sé nelle estenuanti tournée in giro per il mondo.

Appollaiato sul suo cazzo di trentuno centimetri.

Diffidate da qualunque donna sostenga che le misure non sono importanti. Riusciranno a farmi bere quest’ipocrita fandonia solamente il giorno in cui ne vedrò qualcuna uscire da un sexy shop con un vibratore di dimensioni inferiori a quelle del Belgio.

“Salve, vorrei uno di quei falli di gomma di proporzioni irrisorie esposti in vetrina”.

“Sono desolato, signora Dalla Chiesa, ma sono tutti prenotati. Come ben saprà il gentil sesso da sempre vede di buon occhio anche organi sessuali di modesta entità. Purtroppo ci è rimasto solo questo enorme pene in lattice: lo chiamano l’Achille Lauro dei dildo; è talmente grosso che la scatola d’imballaggio l’hanno progettata Christo e Jeanne-Claude”.

“Non saprei. Per quanto sia l’affermata donna di spettacolo che tutti ben conoscete, nutro per i peni grandi la comune indifferenza che provano tutte le donne. D’altra parte potrei sempre adoperarlo per sporadiche penetrazioni anali. Le spiace se, in via del tutto eccezionale, lo provo adesso? Sa, è mezzogiorno ed il suo disdicevole negozietto si affaccia su una Scuola Montessori: non vorrei crearle problemi”.

“Una beniamina dell’intrattenimento televisivo come lei può permettersi questo ed altro. Oh, stia attenta, signora Dalla Chiesa: un cocker le sta defecando sulla gamba”.

“Dannazione, pare siano schizzi di diarrea. Credo che li coprirò appiccicandoci sopra queste piume arricciate che ho fortuitamente rinvenuto sul dorso di un canarino. Ma la prego, mi chiami per nome”.

“Non sa quanto vorrei. Ma dubito fortemente che i lettori di qualcosadelgenere siano disposti a pagargli un avvocato”.

Ma torniamo al cazzo dei negri.

Non so dirvi con esattezza quanto dovrebbe esser lungo il vostro pene per esser certi che non sia piccolo, ma se ve lo state chiedendo non è un buon indizio.

Grazie al cielo non ho di questi problemi. Il mio uccello è talmente grande che si è scritto da solo questa battuta.

Scherzi a parte, so di avere un pene enorme perché guardavo quelli degli altri nello spogliatoio del liceo. Avevo sei anni e mi davano in cambio un Mars.

Ad ogni modo, sfatiamo una volta per tutte questa storia della regola della L. Non è supportata da nessun fondamento anatomico e mi rifiuto categoricamente di credere che ci possa essere una qualunque sorta di intervento divino volto a risarcire sessualmente i nani. Checché ne dica la CEI.

Suvvia, ditemi il nome di un nano famoso che ha sfondato nel porno.

Non vi viene in mente niente. E sapete perché? Perché nessun fottuto gnomo del cazzo ha sfondato nel porno; gli unici nani che avete visto al cinema si muovevano in branchi da sette o erano intrappolati dentro R2D2.

Mi piace fare battute sui nani perché statisticamente le probabilità che qualcuno se la prenda sono infime. Mi piace fare battute sui nani e sulle persone che hanno subito amputazioni. Voglio dire, quanti monchi mi leggeranno? E quanti di questi potrebbero scrivermi una mail di protesta?

Sempre che non li aiutino quelli di Emergency, ovvio.

Bisogna però ammettere che negli ultimi anni la biotecnologia medica ha compiuto passi da gigante. A mia zia per esempio hanno impiantato un’avveniristica protesi prensile in titanio collegata al sistema nervoso tramite un microchip che le permette di afferrare oggetti con una tale naturalezza che sta seriamente pensando di farsi amputare anche l’altra mammella.

Il sesso coi cinesi invece è terribilmente noioso.

E lo dimostra il fatto che l’unico espediente per rendere appetibile un video asiatico su YouPorn è imbracare una teenager su una pedana semovente agganciata ad un binario che la proietta a velocità considerevoli dentro una vasca ricolma di soia dove la attendono dodici ominidi con gli occhi a mandorla intenti a massaggiarsi testicoli grossolanamente censurati da quadratoni sfocati.

Mi ha sempre affascinato l’idea di una cultura così bigotta da oscurare scrupolosamente i propri organi genitali ma nel contempo immorale quanto basta a consentire a dodici carpentieri di Hong Kong di eiaculare su una diciottenne.

Qualche tempo fa stavo facendo sesso con una donna in menopausa quando sullo schermo è apparsa questa ragazzina nipponica che attendeva paziente che sette lottatori di sumo sborrassero a turno dentro un bicchiere da brandy. Ditemi voi se non è una delle cose più disgustose che abbiate mai sentito. L’avrebbe mandato giù in un sorso, se solo Michele Mirabella non avesse mandato la pubblicità.

“C’è una telepromozione, Qualcosa. Che ne dici di provare il mio nuovo dildo?”

“Temevo non me l’avresti mai chiesto, Rita”.

mercoledì 9 dicembre 2009

Strana gente alla statale di Milano. (articolo pubblicato da agoravox)

Strana gente alla statale di Milano

"Non abbiamo forse organi, membra, sensi, affetti, passioni? Se ci pungete non sanguiniamo? Non moriamo se ci avvelenate?".
Strana gente alla statale di Milano
Ogni giovedì pomeriggio, alle ore 17, presso l’Università Statale di Milano, si riunisce strana gente. L’aula seminari del Dipartimento di Filosofia si riempie di loschi individui, li chiamano: gli animalisti! Che cosa fanno questi insoliti personaggi nel tempio della filosofia milanese? Ma, soprattutto, cosa c’entra la filosofia con gli animali?

Qualcuno ci fornisce indicazioni al riguardo: "Un gruppo di studio per affrontare le questioni dell’animalismo (il nostro rapporto con gli animali non umani, gli usi che ne facciamo, i loro diritti) attraverso considerazioni e argomenti di filosofia morale". Dunque ci si propone di allargare il campo morale anche ai non umani? Sembrerebbe di sì. E cosa comporta questo? Se siete interessati a discuterne insieme a Sandro Zucchi, ordinario di semiotica, presso il Dipartimento di Filosofia della Statale, adesso sapete come e dove andare.

Proprio il prof. Zucchi ci tiene a sottolineare come il seminario non parta o dipenda da lui, ma sia frutto dell’impegno comune dei suoi partecipanti, tra i quali troviamo studenti di filosofia, animalisti, criticoni, curiosi e appartenenti ad associazioni come l’Oipa che da anni si occupa di tutelare la triste condizione degli animali non-umani. Discutere di filosofia coniugando la propria volontà di salvare esseri indifesi è uno degli obbiettivi di questo seminario a cui spesso partecipano anche persone note e gli stessi autori dei testi che si leggono.

Ecco le prossime due date:


* Giovedì, 10 Dicembre 2009 alle ore 17
Titolo: David Nibert, una teoria sociologica dell’oppressione
Interviene: Filippo Miserocchi
* Giovedì, 17 Dicembre 2009 alle ore 17
Titolo: L’etica della virtù
Intervengono: Sandro Zucchi, Luca Barlassina, Stefano Delzoppo
(Giovedì 17 Dicembre 2009 verranno decise, sulla base delle proposte, le date per il calendario di inizio 2010)

Partecipare può essere un’ottima occasione per riflettere su argomenti a cui prima nessuno di noi aveva mai badato e magari per rendersi utili nei confronti di coloro che soffrono silenziosamente per permetterci di continuare a vivere così, come infatti viviamo.

Per informazioni e aggiornamenti rimando al blog di Sandro Zucchi . Si spera poi, per chi può, di vedervi in numerosi.

La filosofia è l’esaltazione del pensiero umano ma spesso è utile rimanere con i piedi per terra e cercare di agire praticamente attraverso questo strumento. Argomenti e constatazioni razionali possono, infatti, riuscire a evidenziare dove e se sbagliamo nei confronti degli altri animali e insegnarci a correggere i nostri atteggiamenti scorretti nei loro confronti.

"Se il capitalismo è un grattacielo gli animali vivono negli scantinati".

mercoledì 2 dicembre 2009

"Make Belive". Alice come paradigma dei "fantastici" mondi possibili.


LO SPECCHIO

Una cosa era certa: che il micino bianco non c'entrava affatto: la colpa era tutta del nero. Durante l'ultimo quarto d'ora Dina, la gatta madre, aveva lavata la faccia al micino bianco (operazione che il micino dopo tutto, aveva sopportato con dignità); era quindi chiaro che esso non aveva potuto aver parte nel misfatto.

Il modo come Dina lavava la faccia ai figli era questo: prima teneva il poverino per l'orecchio con una zampa, e poi con l'altra gli stropicciava tutto quanto il muso, contro pelo, principiando dal naso; e proprio poco prima, come ho detto, era stata occupatissima col micino bianco, che se ne stava tranquillo e calmo tentando di far le fusa, certo col sentimento che tutto si faceva per il suo bene.

Ma il gattino nero era stato lavato prima in quel pomeriggio; e così, mentre Alice se ne stava rannicchiata in un cantuccio della maestosa poltrona, in una specie di dormiveglia, esso s'era dato a una gran partita di salti col gomitolo che Alice aveva pazientemente fatto dalla matassa di lana, rotolandolo su e giù finchè l'aveva tutto ingarbugliato. Ed ora ecco il gomitolo sparso sul tappeto tutto nodi e grovigli, col gattino in mezzo che cerca di acchiapparsi la coda.

- Ah, brutto micio - gridò Alice acchiappando il gattino e dandogli un bacio per fargli capire d'essere in collera. - Veramente Dina avrebbe dovuto insegnarti a essere più educato! Tu devi farlo, Dina, tu sai che devi farlo! - essa aggiunse, dando un'occhiata di rimprovero alla gatta madre, e parlando col suo miglior tono di disapprovazione. E poi, arrampicatasi di nuovo sulla poltrona, dopo aver preso con sè il gattino e la lana, cominciò a rifare il gomitolo. Ma andava innanzi lentamente, perchè nel frattempo chiacchierava, un po' per il gattino e un po' per sè. Sulle ginocchia di lei il micio sedeva in aria triste, fingendo di osservare il progresso del gomitolo e di tanto in tanto sporgendo una zampetta, e pianamente toccando la palla, come per dire che, potendo, avrebbe aiutato il lavoro volentieri.

- Sai che è domani, micino? - cominciò Alice. - Se fossi venuto alla finestra con me, tu l'avresti indovinato... Ma Dina ti lavava la faccia e non hai potuto. Io guardavo i ragazzi che raccoglievano le fascine e le frasche per la fiammata di carnevale. Ce ne vogliono molte di fascine, micino. Ma faceva tanto freddo e nevicava tanto, che dovettero andarsene. Non importa, micino, domani andremo a vedere la fiammata. - Qui Alice avvolse due o tre volte il filo intorno al collo del gattino, per vedervi l'effetto; ma nell'atto le sfuggì il gomitolo che rotolò sul pavimento, disfacendosi di nuovo per molti metri di filo.

- Sai, micino, io ero così arrabbiata, - continuò Alice, appena si furono riaccomodati sulla poltrona, - quando vidi tutto il danno che avevi fatto. Avrei quasi aperto la finestra per gettarti nella neve! E l'avresti meritato, brigantaccio! Che hai da dire? Non m'interrompere! - essa continuò, levando un dito. - Ora ti dirò tutte le tue cattive azioni. Prima: questa mattina, hai strillato due volte, mentre Dina ti lavava la faccia. E non puoi negarlo, micino, l'ho sentito io. Che cosa dici? (fingendo che il gatto abbia parlato) - Ch'essa t'aveva fatto entrar una zampa nell'occhio? Colpa tua, se tenevi gli occhi aperti: se li avessi tenuti ben chiusi, non sarebbe accaduto. Ora sono inutili le scuse, ascolta. Secondo: tu hai tirato Nevina per la coda mentre io le mettevo innanzi il tegame del latte. Che cosa? Avevi sete anche tu? Come sai che non fosse assetata anche lei? Terzo: hai disfatto il gomitolo mentre io guardavo da un'altra parte. Sono tre mancanze, Frufrù, e tu non hai avuto ancora nessun castigo. Tu sai che ti riserbo i castighi per mercoledì di quest'altra settimana. Immagina un po' se a me avessero riserbato tutti i castighi per un dato giorno? Quanto farebbero alla fine d'un anno? Credo che arrivato quel giorno, mi dovrebbero mandare in prigione. Supponendo anzi che ciascun castigo dovesse consistere nel rimanere senza desinare, allora, arrivato quel terribile giorno, dovrei fare a meno di cinquanta desinari in una volta sola. A dir la verità, non m'importerebbe molto. Sarei più contenta di rimaner digiuna che di mangiarli. «Senti la neve contro i vetri della finestra, Frufrù? Che suono dolce! Come se uno stesse baciando la finestra dal di fuori. Forse la neve vuol bene agli alberi e ai campi e li bacia così soavemente! E poi li copre ben bene, sai, con una coperta bianca, e forse dice: «Andate a letto, cari, andate a letto, cari!» E l'estate quando si svegliano, Frufrù, si vestono tutti di verde e si mettono a ballare... quando soffia il vento... Oh che bellezza! - esclama Alice, lasciando cadere il gomitolo di lana per battere le manine.

«E io desidererei tanto che fosse vero! Certo che i boschi par che dormano in autunno, quando ingialliscono le foglie.

«Frufrù, ti piace giocare a scacchi? Ora non ridere, caro, io te lo domando seriamente. Perchè, quando poco fa stavamo giocando, tu guardavi come se sapessi il giuoco; e quando ho detto: «Scacco matto» tu hai fatto le fusa. Sì, è stato un magnifico scacco matto, e veramente avrei potuto vincere se non fosse stato per quel brutto cavaliere che si sviò fra i miei pezzi. Frufrù caro, fingiamo...»

E qui vorrei saper riferire se non altro una metà delle cose che soleva dire Alice, quando cominciava con la sua parola favorita: «Fingiamo...» Ella aveva avuto il giorno prima una lunghissima discussione con la sorella, soltanto perchè aveva cominciato: «Fingiamo d'essere re e regine»: sua sorella, alla quale piaceva d'essere sempre molto esatta, aveva risposto che non potevano perchè erano soltanto in due, e Alice era stata costretta finalmente a dire: «Allora tu puoi essere una, e io sarò tutti gli altri.» E una volta aveva veramente atterrita la vecchia governante strillandole a un tratto nell'orecchio: «Signorina, fingiamo che io sia una iena affamata e voi un orso!»

Ma questo vuol dir divagare dal discorso di Alice al micio:

- Fingiamo che tu sia la Regina Rossa, Frufrù. Sai che penso? Che se tu stessi seduto e incrociassi le braccia, saresti preciso come lei. Prova subito, caro.

E Alice prese la Regina Rossa dal tavolo e la mise innanzi al micino come il modello da imitare; ma la cosa non riuscì, principalmente, disse Alice, perchè il gattino non volle piegar bene le braccia. Così, per punirlo, lo tenne di fronte allo specchio, perchè guardasse quant'era goffo.

-...E se non stai buono, - aggiunse, - ti faccio andare nello specchio. Ti piacerebbe di andare nello specchio? Ora, se stai attento, Frufrù, e non parli tanto, ti dirò tutta la mia idea intorno alla Casa dello Specchio. Prima di tutto, v'è la stanza che si vede attraverso lo Specchio: è precisa come il salotto dove stiamo; però tutte le cose son messe alla rovescia. Salendo su una sedia la veggo tutta... tutta tranne la parte dietro il caminetto. Quanto mi piacerebbe veder quella parte! Chi sa se nell'inverno c'è il fuoco: se il nostro focolare non fa fumo, non s'indovina mai; ma se c'è fumo di qua, c'è fumo anche di là. Ma chi sa, può essere una finzione, per dare a credere che ci sia il fuoco anche di là. I libri, poi, somigliano ai nostri libri; ma le parole sono stampate a rovescio. Questo lo so; perchè ho tenuto un libro contro lo specchio, e nell'altra stanza ne hanno pigliato un altro.

«Ti piacerebbe di stare nella Casa dello Specchio, Frufrù? Chi sa, se ti darebbero il latte là dentro? Forse il latte della Casa dello Specchio non è buono da bere... E ora, Frufrù, arriviamo al corridoio. Se si lascia aperta la porta del nostro salotto si vede un pezzettino del corridoio della Casa dello Specchio: somiglia molto al corridoio nostro, ma chi sa se più in là non è diverso. Oh, Frufrù, che bellezza se potessimo entrare nella Casa dello Specchio! Son certa che ci sono tante belle cose. Fingiamo di poterci entrare, Frufrù, fingiamo che lo specchio sia morbido come un velo, e che si possa attraversare. To', adesso sta diventando come una specie di nebbia... Entrarci è la cosa più facile del mondo.»

Alice stava sulla mensola del caminetto mentre diceva così, sebbene non sapesse spiegarsi come fosse arrivata lassù. E certo il cristallo cominciava a svanire, come una nebbia lucente.

L'istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di vedere che ce n'era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto.

«Così, qui starò calda come nell'altra stanza, - pensò Alice, - più calda, veramente, perchè qui non ci sarà nessuno che mi farà allontanare dal caminetto. Che bellezza, quando mi vedranno attraverso lo specchio e non potranno toccarmi!»

Poi cominciò a guardare intorno intorno, e si accorse che ciò che poteva essere veduto dalla vecchia stanza era comune e poco interessante, ma che tutto il resto era assolutamente diverso. Per esempio, i ritratti appesi al muro sembravano tutti vivi e lo stesso orologio sul caminetto (come comprendete, nello specchio si vedeva solo la parte di dietro) aveva la faccia di un vecchietto e sogghignava.

«Questa stanza non è tenuta pulita come l'altra» - diceva Alice a sè stessa, vedendo alcuni pezzi della scacchiera fra la cenere del focolare; ma un istante dopo con un piccolo «oh» di sorpresa s'inginocchiò per guardarli. Innanzi ai suoi occhi i pezzi della scacchiera sfilavano per due.

- Ecco il Re Rosso e la Regina Rossa, - disse Alice (sottovoce, per tema di spaventarli) - ed ecco il Re Bianco e la Regina Bianca che si seggono sull'orlo della paletta; ed ecco i due Castelli che camminano a braccetto... Non credo che possano sentirmi, - essa continuò, chinando un po' di più la testa; - e son sicura che neanche possono vedermi. Mi par quasi di diventare invisibile...

Allora qualche cosa cominciò a squittire sul tavolo dietro Alice, e le fece volger la testa appena in tempo per vedere una delle Pedine Bianche rotolare e cominciare a dar calci: ella la guardò con molta curiosità per vedere il seguito.

- È la voce di mia figlia! - gridò la Regina Bianca, passando accanto al Re e urtandolo con tanta violenza che lo fece stramazzare fra la cenere. - Mia preziosissima Lilla!... Mio regale tesoro, - e cominciò ad arrampicarsi selvaggiamente sull'alare.

- Tua regale sventataccia! - disse il Re sfregandosi il naso che aveva battuto cadendo. Egli aveva diritto di essere un po' irritato con la Regina, perchè era coperto di cenere dalla testa ai piedi.

Alice era ansiosissima di rendersi utile. La povera Lilla smaniava e strillava disperatamente; ed allora ella raccolse in fretta la Regina e la mise sul tavolo accanto alla sua rumorosa figlioletta.

La Regina si sedette ansando: il rapido viaggio per l'aria le aveva tolto il respiro, e per un minuto o due non potè far altro che abbracciare silenziosamente la piccola Lilla. Ripreso fiato, gridò al Re Bianco che sedeva imbronciato nella cenere:

- Bada al vulcano.

- Che vulcano? - disse il Re, guardando ansiosamente nel fuoco, come se credesse più che probabile scoprirne uno.

- M'ha soffiato! - balbettò la Regina, che non respirava ancora bene. - Bada di tornare qui... in modo regolare... non farti soffiare!

Alice osservava il Re, mentre egli si sforzava pianamente d'arrampicarsi d'asse in asse, e finalmente gli disse:

- A quella velocità ci metterai un secolo ad arrivare al tavolo. Sarà meglio che io ti aiuti, non è vero?

Ma il Re parve non accorgersi di quelle parole: era assolutamente evidente ch'egli non poteva nè udirla nè vederla.

Così Alice lo prese molto cortesemente, e lo sollevò più adagio della Regina. in modo da non togliergli il respiro; ma prima di metterlo sul tavolo, pensò bene, vedendolo con tanta cenere addosso, di spolverarlo un poco.

Essa narrò dopo di non aver mai visto in tutta la sua vita una faccia come quella fatta dal Re, nel momento ch'egli si trovò in aria tenuto da una mano invisibile e diligentemente spolverato: ne parve così stupito che non fiatò, ma gli occhi e la bocca andarono man mano diventando più grandi e più rotondi, finchè la mano di lei lo scosse fra tante risate che ci mancò poco non lo lasciasse ricadere sul pavimento.

- Oh! non far quelle smorfie, caro! - esclamò a un tratto dimenticando che il Re non poteva udirla. - Mi fai ridere tanto che appena posso tenerti! E non spalancar tanto la bocca! Si riempirà di cenere... Ecco, mi pare che ora sii abbastanza pulito! - ella aggiunse, allisciandogli i capelli e mettendolo sul tavolo accanto alla Regina.

A un tratto il Re stramazzò supino, e rimase perfettamente calmo; e Alice ebbe un po' paura per ciò che aveva fatto, e girò un po' per la stanza per trovare un po' d'acqua e gettargliela in faccia. Ma non potè trovare che una boccetta d'inchiostro, e quando ritornò con la boccetta, vide che il Re s'era riavuto e che parlava con la Regina in un timido bisbiglio... così basso, che Alice potè con difficoltà udire ciò che si dicevano.

Il Re diceva:

- Ti assicuro, mia cara, che ero diventato freddo fino alla punta dei baffi.

E la Regina rispondeva:

- Tu non hai baffi.

- La paura di quell'istante, - continuò il Re, - non la dimenticherò mai.

- La dimenticherai, - disse la Regina. - se tu non l'annoti nel taccuino.

Alice osservò con grande curiosità che il Re traeva di tasca un taccuino enorme, e cominciava a scrivere. Improvvisamente le saltò in mente una idea, e afferrò l'estremità della matita che sorpassava la spalla del Re e cominciò a scrivere per lui.

Il povero Re apparve imbarazzato e dolente, e lottò per qualche tempo con la matita senza dir nulla; ma Alice era più forte di lui. Finalmente egli balbettò:

- Cara mia, debbo procurarmi una matita più sottile. Questa non la so adoperare. Scrive cose che io non capisco.

- Che cosa? - disse la Regina guardando nel libro (in cui Alice aveva scritto: «Il Cavaliere Bianco scivola dall'alare. Egli non sa stare in equilibrio») - Questa non è un'annotazione che ti riguarda.

Vi era un libro sul tavolo accanto, e Alice, mentre se ne stava seduta a guardare il Re Bianco (perchè ancora si sentiva un po' in ansia per lui e aveva l'inchiostro pronto per gettarglielo sul viso, in caso dovesse svenire di nuovo) si mise a voltare le pagine per trovar qualche parte che potesse leggere, «perchè è stampato tutto in una lingua che io non conosco», diceva fra sè.

Era così:

irrat ilgil i e eccoc a are'S
,ottehcsip len navallertrig
irranicnec i icsol ittut
.ottets egnol navaigguffu

Essa guardò impacciata per qualche tempo; ma finalmente le venne un lampo di luce:

- Naturalmente è un libro della Casa dello Specchio. E se io lo metto contro uno specchio, le parole si raddrizzeranno.

Questa era la poesia che Alice lesse:

S'era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.

«Figlio attento al Giabervocco:
ha gli artigli ed ha le zanne,
ed attento, attento aI Tocco,
e disprezza il frumio Stranne!»

Egli prese in man la spada -
da gran tempo lo cercava -
e sull'albero di nada
in pensiero riposava.

Mentre stava sì in pensiero
ecco il Giabervocco appare
per il bosco artugio e fiero
tutte alunche fiamme pare.

Uno e due! Ecco che fa
l'itra spada zacche, zacche.
L'erpa testa ei lascia, e va
galonfando pel pirracche.

«Hai ucciso il Giabervocco!
Vieni, figlio, che t'abbracci,
vieni, figlio, al bardelocco
dei dì lieti di limacci!»

S'era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.

- Sembra bella, - essa disse, quando l'ebbe finita, - ma è piuttosto diffìcile a capire! (Come vedete, non confessava neanche a sè stessa che non poteva comprenderla.) Però mi pare che mi riempia la testa d'idee... Soltanto non so di che si tratti. Certo qualcuno uccise qualche cosa: comunque sia questo è chiarissimo...

«Ma, ohi! - pensò Alice, levandosi immediatamente, - se non faccio in fretta, dovrò ritornare oltre lo specchio, prima d'aver visitato il resto della casa. Vado prima a dare un occhiata al giardino.»

In un istante era fuori della stanza e correva giù per le scale... Veramente correre non è la parola esatta. La sua era una nuova invenzione per far le scale rapidamente e facilmente, come diceva Alice a sè stessa. Essa poggiava la punta delle dita sulla ringhiera, e andava leggermente giù senza neanche toccare i gradini coi piedi; poi volò giù per l'atrio, e sarebbe andata dritta alla porta nello stesso modo, se non si fosse afferrata al pilastro. Sentiva un po' di vertigine passando così per aria e fu lieta quando si accorse che camminava di nuovo nel modo solito.
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Uno dei libri più belli che io abbia mai letto.