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mercoledì 23 giugno 2010

Orgoglioso di questa intervista, davvero.

Massimo Filippi
Leonardo Caffo

Occhiali rossi e All Star slacciate, area da ragazzino. Massimo Filippi ha mille facce sovrapposte e solo un occhio attento può osservarle e capirle tutte. Neuoroscienziato del S. Raffaele di Milano, esperto delle moderne tecniche di neuroimaging, professore universitario e filosofo attento alle tematiche etiche riguardanti umani ma soprattutto animali. L'ho incontrato presso l'Università di Milano, e ho parlato con lui di animali, di morte, di Filosofia.
Partiamo dall’inizio. Il titolo del tuo libro Ai confini dell'umano - Gli animali e la morte mette in relazione cose che, per un lettore inesperto, appaiono molto distanti: umano, animali e morte. Puoi spiegarci in breve il motivo di questa scelta?
Il libro, come recita il titolo, rappresenta un tentativo di riconsiderare i confini dell’umano. Poiché tradizionalmente l’umano è sempre stato declinato come ciò che sorge dopo che gli animali e la morte sono stati esclusi o negati, ecco che la relazione tra i tre termini non dovrebbe più apparire eccessivamente esoterica. A ben pensarci, infatti, gli animali e la morte stabiliscono quelli che sono i sono i consolidati confini spaziali (gli animali) e temporali (la morte) dell’umano, i quali nel momento stesso in cui vengono posti sono subito revocati: in tutti i racconti cosmogonici – o, almeno, in quelli “occidentali” – l’umano è ciò che è radicalmente non-animale e quindi di fatto immortale. Dal che discende che il modo in cui definiamo l’animale e la morte determina immediatamente ciò che pensiamo essere l’umano. Detto altrimenti, quello che qui si tenta di fare è tutt’altro che un semplice esercizio accademico perché l’esclusione degli animali e della morte dall’umano non sono mai state operazioni innocenti; è sotto gli occhi di tutti il fallimento della nostra cultura basata su tale operazione: la morte rimossa ritorna come morte istituzionalizzata, come nuda vita, così come l’animale rimosso ritorna come bestialità della società umana.


La tradizione animalista in filosofia ha già prodotto numerosi testi. Perché il tuo dovrebbe contribuire ad ampliare, non solo quantitativamente, ma anche concettualmente questo filone?
In parte per i motivi detti poc’anzi. L’antispecismo “classico” – quello di Peter Singer e Tom Regan, per semplificare e per capirci – pensava di ridefinire l’animale senza toccare lo statuto dell’umano, operando così in una sorta di vacuum ontologico e politico, forse responsabile della sua scarsa “presa” sia a livello filosofico che a livello di opinione pubblica generale. In altri termini, l’antispecismo “classico” accettava di fatto le premesse della metafisica occidentale e si impegnava a ricercare tracce umanoidi (psichiche/cognitive) in (almeno) alcuni animali per farli entrare nel cerchio della considerazione morale. In questa prospettiva l’animale resta una sorta di umanoide incompiuto. Qui si cerca invece di spostare l’enfasi dalla somiglianza alla differenza, iniziando a rintracciare un percorso nuovo per individuare che cosa ci condivide prima di ogni possibile divisione. E ciò che ci condivide, pur lasciandoci differenti, è la vulnerabilità corporea e la mortalità.


Che cos’è l'antispecismo? E, nello specifico, cosa vuol dire vivere da antispecisti?
Per definire cosa sia l’antispecismo, dobbiamo prima definire cosa si intende per specismo. Specismo è un termine coniato a metà degli anni ’70 del secolo scorso e sta ad indicare un pensiero e un atteggiamento pratico tali per cui gli interessi degli individui della propria specie – anche i più futili e non necessari – prevalgono sempre e comunque su quelli di individui di altre specie, compresi quelli più fondamentali, quali l’interesse a vivere, a non soffrire e alla libertà. L’evidenza empirica ormai non lascia più margine al dubbio sul fatto che gli animali abbiano degli interessi e siano in grado di provare piacere e dolore; il nostro pensiero, pertanto, non può che rimodellarsi sulla base di tali acquisizioni che, da Darwin in poi, sono venute costituendosi come una massa tale da essere difficilmente ignorabile. Solo per fare un esempio ogni anno circa 50 miliardi di animali non umani – senza contare quelli di piccola taglia, tipo conigli e molti pesci che sono venduti a tonnellaggio – passano per il sistema “allevamento intensivo – mattatoio” dove, dopo una vita miserabile caratterizzata da sofferenze inaudite, vengono letteralmente fatti a pezzi per questioni di gusto. E a ben pensarci l’alimentazione è solo una parte del problema: l’intera nostra società si fonda teoricamente e materialmente sulla sofferenza e sulla morte degli animali, dal modo in cui ci vestiamo a quello in cui facciamo ricerca scientifica. Vivere da antispecisti allora vuol dire aver ben chiaro che esiste una violenza “naturale”, cu cui possiamo ben poco, e una violenza istituzionalizzata, che invece dobbiamo rigettare. Vivere da antispecisti significa, da un lato, optare per una vita che si impegni ad eliminare dal mondo quanta più sofferenza possibile, diventando vegani e rifiutando ogni prodotto di derivazione animale e, dall’altro, far chiarezza sul fatto, come si alludeva in precedenza, che oppressione animale e oppressione umana sono inestricabilmente correlate e che, quindi, non è possibile pensare di passare da presunzioni gerarchiche a favore di presunzioni ugualitarie senza considerare l’animale, pena la ricaduta in qualche altra forma di illibertà e di sfruttamento.


Nel tuo libro parli di due diverse tradizioni filosofiche che fanno da sfondo alla questione animale: quella analitica e quella continentale. Che differenze ci sono, puoi spiegarcelo in breve?
Nella modernità, la “questione animale” – ossia, come si diceva in precedenza, l’abuso sistematico e istituzionalizzato dei corpi degli animali in proporzioni quantitative inaudite e con un livello di sofferenza neppure lontanamente concepibile – è stata riportata alla luce e alla considerazione della filosofia da parte di autori anglosassoni di stampo analitico. Questi autori hanno offerto una nutrita serie di proposte etico-politiche a favore del miglioramento della condizione animale, senza però prospettare una via d’uscita dalla dicotomia occidentale tra spirituale e corporeo ossia, come si diceva, ritenevano di poter inserire gli animali nella sfera della considerazione morale senza mettere in questione lo statuto dell’umano. Al contrario, la “grande” tradizione filosofica continentale, da Platone a Heidegger, pensa di poter parlare dell’umano “fingendo” che l’animale non esista o che esista solo come referente negativo sul quale l’umano si costituisce dopo averlo dismesso. Esistono, però, autori continentali che si smarcano da questa prospettiva (penso soprattutto a Nietzsche, Adorno, Derrida e Deleuze) che, affrontando radicalmente il senso dell’opposizione umano/non umano, forniscono solide basi per una “riabilitazione” dell’animalità che investa nel profondo anche ciò che si dice “umano”. Purtroppo, però, quest’altra linea di pensiero sembra dimenticarsi del dolore presente, non offrendo così proposte etico-politiche alla “questione animale” o, nel momento in cui lo fa, queste sono così “deboli” da essere prive di conseguenze pratiche o addirittura contraddittorie rispetto alla precedente decostruzione dell’antropocentrismo. Uno degli aspetti di questo libro, forse uno dei più importanti, è proprio quello di cercare di far dialogare queste due tradizioni di pensiero, cercando da un lato di “fondare” l’animalismo su solide basi filosofiche senza togliergli, dall’altra, il suo “mordente” sociale.


Ho individuato alcune parole chiave nel tuo libro, ad esempio, “inumano”, “sacro”, “aporia”, “linguaggio”. Puoi mostrarci brevemente come questi termini apparentemente lontani siano in realtà connessi tra loro?
Le parole chiave da te individuate sono in effetti le parole chiave del libro, ne costituiscono l’innervatura, lo scheletro e il tessuto connettivo. Proprio per questo è difficile mostrare come siano tra loro interconnesse: se davvero dovessi farlo dovrei riscrivere tutto il libro. Ma, in questo caso, non potrei essere breve! Proverò un’altra strada, forse, un po’ oscura, ma spero suggestiva per sollecitare alla lettura del saggio. “In-umano” è un modo di avvicinarsi e concepire l’umano senza rigettarlo, un modo, come scrivo, per cominciare a pensare ad un racconto più benigno dell’umano. In-umano significa provare ad intessere un discorso intorno all’umano – quindi non un altro discorso dell’uomo sull’uomo – che riconosca che non esiste un proprio dell’umano, che questo è preceduto, attraversato e sopravanzato, dal mostruosamente Altro, da ciò che tradizionalmente abbiamo considerato come il più improprio: gli animali e la morte, appunto. Se l’umano è letteralmente “parassitato” e “contagiato” dal non umano, si apre lo spazio di pensabilità per un nuovo concetto di “sacro”, dove ciò che conta non è più solo ed esclusivamente la nostra vita dal concepimento alla morte “naturale, il tutto a spese della vita degli altri, ma piuttosto la sacralità di quel piano di immanenza, che genericamente chiamiamo “vita” e che, forse, dovrebbe essere declinato come “con-fine”, con-finitezza e con-finitudine – un modo più benigno per dire “confine”. Un sacro quindi che, riconosciuta l’inestricabile “ragnatela” del “tra” delle vite, non si fondi più sul sacrificio ma piuttosto su un sostare paziente e pacificato. E qui interviene il termine “aporia” che è l’accettazione dell’impossibilità del nostro pensiero di risolvere tutte le contraddizioni che, necessariamente, richiama quello di “perire”, che non significa solo “morire”, ma anche “per-ire”, in questo senso, “per-ire” è illuminante nello stesso modo in cui lo è la luce, che rende possibile la visione, restando essa stessa impercettibile – ossia girare intorno, sostando in un luogo, luogo dove si cammina, si passa e si tra-passa. Credo che a questo punto ci sia poco da aggiungere sulla parola chiave “linguaggio”. Il nostro linguaggio è formato dallo specismo, intriso di specismo e retroagisce sul nostro modo di pensare radicalizzando l’esclusione dell’animale: non a caso il linguaggio ha spesso costituito quel confine insuperabile che abbiamo posto tra noi e il resto del vivente, non a caso esso si è spesso dato come una forma laica di immortalità. Da qui la difficoltà di affrontare i temi di cui abbiamo discusso con il linguaggio che abbiamo a disposizione, da qui la necessità di trovare “inciampi” nel linguaggio che gli facciano restituire la voce animale e mortale che esso tenta di occultare ma che è ancora lì presente e aspetta di essere riportata alla luce.


Cosa ti auspichi in futuro per gli animali ...e per gli umani?
Certamente mi auspico per entrambi un futuro liberato, privo di oppressione, sfruttamento e violenza istituzionalizzata. Ma non chiedermi di più, non chiedermi, come direbbe Montale, “la parola che squadri da ogni lato”. Seguendo, infatti i pensatori della Scuola di Francoforte, poiché la liberazione deve essere realizzata nell’ambito del processo storico da parte di soggetti intrecciati alla dissoluzione della società di cui essi stessi sono parte, non è possibile fornire orientamenti concreti per l’azione sociale. Come afferma Horkheimer: “Si può dire che cos’è male nella società data, ma è impossibile dire quale sarebbe [...] il bene, si può solo lavorare perché il male infine scompaia”. Il che non è poi molto diverso da quanto sostiene anche Günther Anders: “Liberarsi dell’infelicità che può essere eliminata è più urgente della discussione sulla felicità”. Anzi, a ben vedere, “la discussione sulla felicità” è la modalità con cui l’esistente, distogliendo l’attenzione dall’“infelicità che può essere eliminata”, perpetua l’oppressione. Per dirla con Bloch, è nell’oscurità dell’istante vissuto che la funzione utopica, negando ciò che è, apre il cammino a ciò che può essere, sfuggendo all’immobilità del presente.


Un’ultima domanda. Personale ma in fondo connessa al tema fondante del tuo libro. Che rapporto hai tu con la morte? La dedica iniziale del tuo libro è commovente e misteriosa… ci sveli qualcosa?
Derrida afferma che all’animale non tanto abbiamo negato la facoltà di parlare quanto la possibilità di risponderci. E ciò che caratterizza la possibilità di rispondere è che questa preveda sempre la possibilità della non risposta, la possibilità di sottrarsi alla domanda: se dovessimo rispondere sempre, infatti, non risponderemmo nel senso di “rispondere a” e di “rispondere di”, ma avremmo a che fare con degli automatismi. Ecco, mi piace concludere questa intervista non rispondendo alla prima delle due ultime domande e lasciando almeno parzialmente intatto il mistero della dedica. Posso solo dirti che si tratta di un cane femmina che ho incontrato per caso, dopo che verosimilmente era stata abbandonata, un agosto di tanti anni fa che ho amato profondamente, con la quale ho condiviso un lungo tratto della mia vita e che è morta, insegnandomi molto, nei mesi in cui stavo scrivendo questo saggio. Spero con questo di non aver svelato troppo il mistero di questa dedica, perché svelare i misteri, non esitare là dove gli angeli lo farebbero, è parte di proprio di quella hybris umana da cui qui si vorrebbe prender congedo.

3 commenti:

  1. una bellissima intervista, l'ho letta con interesse e non capita spesso

    d.

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  2. Che bell'intervista! Belle le domande e belle le risposte!

    "... perché svelare i misteri, non esitare là dove gli angeli lo farebbero, è parte di proprio di quella hybris umana da cui qui si vorrebbe prender congedo."

    Già, questo vizio tutto umano di sentirsi onnipotenti ed onniscenti...

    Peraltro la questione del linguaggio mi è sempre stata molto a cuore, ed è vero che è intriso di specismo.

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  3. ah biancaneve leggo solo ora il tuo commento. ma poi come stai, hai preso il saggio?

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