martedì 20 ottobre 2009
"Thoreau o del vagabondare." Di Filippo Trasatti. (uscita per A.)
"Il suo stato d'animo è quello di uno che abbia in sé dieci prigionieri e un uomo libero, che è il loro guardiano"
(E.Canetti)
Vorrei tentare di annodare alcuni fili intorno a un tema che da tempo mi sta particolarmente a cuore: quello del vagabondare. Si tratta di un'immagine, anzi di una serie di immagini collegate da un sentimento forte: il desiderio di libertà che ci attraversa come un lampo nel corso della nostra vita quotidiana, quando la sentiamo forte dentro di noi come un prigioniero che si agita.
Una concrezione di impressioni che si sviluppa verso l'alto come una stalagmite e sempre più attira lo sguardo, fino a intralciare l'usuale cammino per le stanze della nostra esistenza. E proprio agli ostacoli si deve guardare, un poco come i lapsus nell'analisi di Freud, per scoprire l'inaspettato intorno a noi. Il vagabondo è per me prima di tutto chi individua e cerca di scavalcare gli ostacoli della sua vita quotidiana. Si direbbe che fugga da qualcosa, forse dalla sua gabbia.
Che cosa va cercando Thoreau nelle sue passeggiate per i boschi, oltre i recinti che limitano le proprietà intorno a Concord?
Vuole trovare insieme alla libertà del suo movimento la libertà del pensiero. Cerca una forma nuova di conoscenza. Vuol liberarsi dalle sue consuetudini quotidiane, farsi vagabondo senza terra per sentirsi a casa propria ovunque, pur non avendo casa in nessun luogo. Nell' "arte del camminare" che Thoreau ci propone , troviamo quasi un metodo di rigenerazione continua, una tecnica per sfuggire all'angustia degli steccati conoscitivi. Questo vagabondare rapsodico allontanandosi dalle strade battute e dai pensieri fortificati è l'inizio di una conoscenza e di un modo di vivere diversi. Thoreau andava alla ricerca di una wilderness che ai suoi tempi ancora esisteva per rinnovarsi, per sentirsi libero. E il luogo di incontro con questa natura selvaggia era per lui la foresta. Cercava uno sguardo diverso sulla natura che non fosse né di predazione, né di contemplazione passiva.
"Il mio desiderio di conoscere è discontinuo, ma il desiderio di rigenerare la mente in atmosfere sconosciute, esplorando zone non ancora percorse dalle mie gambe è perenne e costante" (Camminare,52).
Thoreau è un esploratore, ma un esploratore dell'Ottocento che ha filtrato le millenarie esperienze della civiltà occidentale consapevole di ciò che la pratica dell'esplorazione ha significato, della sua carica insieme conoscitiva e distruttiva, delle luci e delle ombre che la civiltà ha gettato sui nuovi spazi conquistati. Ma soprattutto è un esploratore consapevole che ogni vera scoperta, ogni vera esplorazione è anche, e talvolta prima di tutto, un'esplorazione interiore alla ricerca delle terre selvagge, dei territori sconosciuti:
"Siate dei Colombo per interi, nuovi continenti e nuovi mondi dentro di voi, aprendo nuovi canali, non di commercio ma di pensiero". (Walden,397)
E' difficile per noi abituati a pensare al globo attraverso le carte geografiche, anche solo immaginare che potessero esistere non più di un secolo fa ancora vasti territori bianchi sulla carta. Ma oggi che tutti gli spazi sono stati attentamente cartografati, che cosa resta da esplorare? Forse la wilderness si è spostata nel cuore della nostra stessa civiltà senza che ce ne siamo accorti. Come nel Cuore di tenebra di Conrad, chi ha il coraggio estremo di giungere fino ai limiti della nostra civiltà trova quel vuoto, quel cuore selvaggio e misterioso che credevamo di aver domato per sempre conquistando i nuovi territori. E' forse in questo che si può ritracciare il senso più proprio del vagabondare, oggi. L'ultimo vagabondo americano, William Least Heat-Moon, insegnante di origine indiana, attraversa l'America per cercare percorsi nuovi agli stessi abitanti dei luoghi, perché spesso ci sfugge proprio ciò che abbiamo davanti agli occhi e dobbiamo spostarci per vederlo.
Strade blu è il taccuino di un vagabondo colto alla ricerca di un'altra America attraverso le strade blu (le strade secondarie che sulle cartine americane hanno questo colore). Lentamente emerge un'immagine dell'America lontanissima da quella cui i giornali e i film ci hanno abituato; degli Usa conosciamo a grandi linee New York, San Francisco e Los Angeles, con la cultura che da là proviene. Vagabondare mostra i limiti di un'identità culturale territoriale costruita appiccicando decalcomanie dall'alto. Mostra che non ci sono americani, più di quanto non ci siano italiani. Ed è proprio questo movimento di attraversamento dei confini, delle frontiere a sfumare quei contorni troppo netti con i quali siamo soliti rappresentarci la realtà. Consideriamo più spesso i limiti come ostacoli che come punti di relazione: se è chiara a tutti la funzione protettiva, di contenimento del limite, meno praticata nella nostra cultura è l'immagine del limite come punto di passaggio, come relazione tra territori diversi.E' l'incontro con altre culture, ma non a caccia dell'esotico fine a se stesso; piuttosto si tratta di un esercizio di sradicamento dal centro, un tentativo di vedersi con gli occhi dell'altro, un'affacciarsi su altre culture, sapendo di non poter abbandonare la propria, ma cercandone i limiti, le incrinature, le brecce di passaggio. Nelle sue peregrinazioni il vagabondo porta con sé la propria cultura; Thoreau non dimentica neanche per un istante di essere un occidentale e anche se non porta con sé i suoi amati libri, continua a dialogare da lontano con gli autori che ama. Chatwin, per parlare di un altro vagabondo a noi contemporaneo, è un occidentale profondamente colto che vagando tra le culture diverse riesce a vedere con occhi diversi quella in cui è immerso.
Forse nel vagabondare si riesce a cogliere meglio quello che è uno dei segni della nostra epoca moderna: l'esperienza dello sradicamento. Quel non riuscire più a rappresentarsi semplicemente come un unità dentro a un cerchio magico, il confine, il sentimento di paura e di attrazione che lo sradicamento moderno produce, vengono percepiti distintamente quando siamo lontani dalla Casa. L' allentarsi dei legami sociali viene sperimentato volontariamente nell'esperienza della fuga solitaria. Perché bisogna toccare la propria solitudine essenziale per unirsi agli altri più saldamente. In fondo si vaga anche per cercare quella comunità con gli altri che abbiamo perduto, una comunità senza forma, senza indirizzo che appare prima di tutto nel sentimento di un'appartenenza universale. Si vaga forse anche per sentirsi fratelli del mondo.Il viaggio del vagabondo attraverso lo spazio e il tempo è metafora del movimento interiore. L'abbandonare le cose, i luoghi , le persone conosciute porta lentamente il viandante fuori dalle proprie abitudini. Ma qui è il punto importante. Ciascuno porta dentro di sé la propria casa e la cerca nei luoghi che visita senza mai poterla trovare. Il vero viaggio è interminabile ed è il mantenersi in questa incertezza, sempre perduti eppure sul punto di trovare, che rende incomparabilmente ricco d'esperienza il vagabondare.
Vagabondare è uscire dal "luogo comune" come abitudine di pensiero e anche come luogo dell'abitare consueto. E' dunque prima di tutto riconoscere che viviamo in luoghi comuni, fatti da altri per noi, sentire un'inquietudine profonda che ci spinge a uscire, a muoverci nella direzione dei nostri desideri. "Se uno avanza fiducioso nella direzione dei suoi sogni e cerca di vivere la vita che s'è immaginato, incontrerà un inatteso successo nelle ore comuni. Si lascerà qualcosa alle spalle, passerà un confine invisibile; leggi nuove, universali e più libere cominceranno a stabilirsi dentro e intorno a lui; oppure le vecchie leggi saranno estese e interpretate in suo favore in senso più ampio" (Thoreau,Walden, 399).
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